Sant’Europa, Sant’Europa, fai il miracolo e assistici tu nell’ora della crisi, guidaci nelle vie dei bilanci, e proteggici dalle intemperie dei debiti. Ogni sera, senza che nessuno lo sappia, il buon Matteo Renzi rivolge questa devota giaculatoria a una santa di cui lui è il solo vero pio cultore. Certo, come in tutti i rapporti tra devoti e protettori, c’è sempre qualche momento di crisi, qualche arrabbiatura, e ciò soprattutto quando le richieste divengono pressanti e i santi, assai impegnati su molti fronti, mettono qualche filtro alle implorazioni dei postulanti. Ma di norma il nostro fiorentin servente se la cava.
Questa volta il suo problema è come riuscire a far quadrare il bilancio con le promesse di ridurre il debito e il deficit, e insieme con il desiderio di infliggere un’altra bella stoccata al sindacato. A tutto il sindacato, perché in questo Matteo è davvero super partes: non guarda ai colori e agli schieramenti, ma solo alla natura delle associazioni. Si sa, almeno gli addetti ai lavori lo sanno, che se c’è un tema delicato, complesso, pieno di contraddizioni e di veti, questo è quello del contratto nazionale di lavoro. Basta pensarci, d’altra parte, per capire: quegli italiani che lavorano, e sono ancora la grande maggioranza, passano in azienda dalle otto alle dieci ore al giorno. Lì si mangia, si discute, si produce, lì ci si ammala, ci si deprime o ci si esalta. Lì si diventa ricchi, o almeno si stabilizza il proprio reddito, lì si diventa poveri, o disoccupati. Si litiga col capo, lì si consumano i pasti, lì ci si innamora (dicono le statistiche, anche quelle relative ai tradimenti coniugali).
In quelle pagine che pochissimi leggono, che quasi tutti ignorano, c’è la vita di milioni di italiani. Dunque perché toccare un argomento così delicato? Perché il Governo ha due problemi, da un lato quello di convincere l’Europa che noi stiamo facendo le riforme e dunque se anche ci sono debiti e il deficit aumenta troppo, beh, che Sant’Europa chiuda un occhio. Anzi già che ci siamo li chiuda tutti e due. Poi perché così, alla Renzi, si taglia un nodo gordiano che da decenni stringe alla gola il mondo sindacale: la regolamentazione per legge dei contratti, e l’equilibrio tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale.
L’intervento alla Matteo, è un’azione che ricorda tanto le entrate a metà campo dei medianacci di una volta: di quelli “senza guardare troppo se prendi palla, caviglia, campo, l’importante è che prendi qualcosa”. L’importante cioè è che alla fine l’azione, lenta e melensa in questo caso, come in molti altri però, del sindacato si interrompa e che l’avversario la prossima volta ci pensi prima di venire dalle sue parti.
La Cisl da sempre predica l’autonomia delle parti sociali, la Cgil invece vorrebbe tanto che la legge garantisse spazi e ruoli sindacali. Contenta dunque la Camusso e Cisl in rivolta per quel che si prospetta? Macché, perché la par condicio fiorentina sposterebbe, secondo le prime anticipazioni, il baricentro del fare sindacato dal contratto nazionale a quello aziendale. E su questo il sindacato di via Po riderebbe compiaciuto (beh, diciamo che sorriderebbe sotto i baffi), ma la Cgil si contorcerebbe per il dispiacere.
Pari e patta. E gli italiani? Cioè quelli che avranno il problema dei turni di lavoro, dell’organizzazione aziendale e, soprattutto, dello stipendio?
L’idea ovviamente non dovrebbe dispiacer loro: aziende più ricche, salari più ricchi, condizioni migliori. Insomma l’ipotesi dovrebbe essere che laddove ci sono i soldi e le idee, o almeno uno dei due, le controparti dovrebbero poter provvedere a quel che il governo non riesce a fare con continuità, cioè a rimpinguare le tasche dei lavoratori. Purché però i soldi ci siano.
Il combinato disposto, come si dice in gergo, di questo decreto e delle novità in tema di welfare aziendale, la nuova frontiera della contrattazione, potrebbe poi spingere davvero verso un deciso cambio nelle abitudini degli italiani: potremmo arrivare ad avere aumenti salariali sostituiti da servizi e beni in natura, aziende che investirebbero di più sulla produttività, forse anche sulla formazione dei dipendenti e l’innovazione. E d’altro canto aver lavoratori e aziende meno schiacciati da aumenti inesistenti o troppo onerosi, da carriere al rallentatore, da contratti capestro o troppo rigidi o di interpretazione bizantina.
Il futuro sarà dunque della contrattazione decentrata? Potrebbe essere e non è detto che ci si prospetti l’inferno. Ma non aspettiamoci neppure miracoli: il rilancio dei contratti e dei salari passa certo dalla contrattazione e dalla produttività, ma anche dagli investimenti, dal taglio ai costi impropri (ad esempio, quelli legati alle lentezze del sistema giudiziario), o delle bollette energetiche, dalle decisioni in materia di politica industriale, dagli incentivi per le piccole e medie imprese e dalla semplificazione amministrativa.
Ci sarà battaglia, questo è certo: battaglia sulla contrattazione decentrata, sulla norma per legge, sui contenuti del decreto. Bisognerà vedere se ne uscirà un pareggio striminzito o se sui medianacci l’avrà vinta la classe di chi, come dicono gli esperti, da del tu al pallone. In questo caso il pallone e il gol sono i salari degli italiani e la loro vita quotidiana.
Con una raccomandazione: che Sant’Europa porti la pace dove per ora ci sono solo guerra e confusione.