“Fabbrica Italia sì, Fabbrica Italia no”: Sergio Marchionne non si smentisce. Il geniale capo-azienda del gruppo Fiat-Chrysler (anzi: abituiamoci a chiamarlo Chrysler-Fiat), dopo aver presentato due anni fa un piano di rilancio industriale battezzato, efficacemente, “Fabbrica Italia”, che prevedeva 20 miliardi d’investimenti e non averli fatti; dopo aver usato il piano per rinegoziare i contratti di stabilimento a Pomigliano e Mirafiori e uscire dalla Confindustria; dopo essere andato, cinque mesi fa, a Palazzo Chigi a riparlare dei suoi programmi d’investimento in Italia senza però aggiungere impegni concreti; dopo aver rilasciato una mega intervista di due pagine a Il Corriere della Sera per annunciare che senza una svolta l’Europa dovrà tagliare la capacità produttiva nel settore dell’auto e che quindi anche l’Italia dovrà perdere almeno una fabbrica…
Dopo tutte queste cose, queste dichiarazioni pendolari, scandite intanto dall’ottimo andamento delle vendite Chrysler negli Usa (dove ci sono buoni modelli da offrire) e da vendite calanti in Italia, ha riaperto all’idea di attuare “Fabbrica Italia”. Ma attenzione: in che termini ne ha riparlato? Prendendo tempo: “Informazioni sul piano prodotti e stabilimenti saranno comunicate in occasione della presentazione dei risultati del terzo trimestre 2012”, ha detto ufficialmente, perché “la crisi dell’economia internazionale e le difficoltà del mercato automobilistico europeo non consentono al momento di fornire indicazioni sui futuri investimenti”. E incontrando i sindacati avrebbe aggiunto: “È quasi impossibile lavorare in una situazione di assoluta incertezza per quanto riguarda l’applicazione di norme di legge e di contratto. Per confrontarsi con la concorrenza internazionale è indispensabile che venga garantito il rispetto e la condivisione, da parte di tutti, delle condizioni concordate tra azienda e sindacati nel contratto di lavoro di gruppo”.
Insomma, da instancabile negoziatore, da consumato pokerista non smette di trattare, negoziare e negoziare. Prende impegni e li rinvia, e intanto guadagna tempo. Dice che il gruppo sta discutendo di partnership “con diverse persone” per meglio valorizzare la capacità produttiva in Italia: e si parla della Mazda che potrebbe utilizzare in parte qualche stabilimento italiano. Poi attacca Volkswagen (e si becca una replica per le rime), accusandola di concorrenza sleale sui prezzi, paradossale critica visto che viene rivolta a un colosso che macina utili e li ha appena accresciuti…
In realtà, Marchionne non vuole vendere le fabbriche italiane, perché sa che le svenderebbe, ma non vuole rischiare soldi in un mercato, l’Europa, nel quale non crede e in un Paese, l’Italia, che non apprezza. C’è da chiedersi solo cosa aspetti il governo ad attuare la promessa manifestata alle Camere dal sottosegretario allo Sviluppo economico De Vincenti, di convocare formalmente l’azienda per indurla a prendere degli impegni “di minima”, ma inderogabili. Non resta da fare altro: i sindacati, da soli, con questo modo di fare sono ridotti all’impotenza. Non sarebbe in ogni caso un male, ma in questo caso lo è.
Anche perché forse nessuno le comprerebbe ai prezzi necessari, ma, attraverso queste partnership, può sostanzialmente vendere quote di mercato in Italia a produttori che ritengano di non averne a sufficienza. Come la Mazda, un “marchiolino” senza personalità, che si ritrova partner di Fiat per il nuovo spider Alfa, figlio di quello che fu un’icona dell’auto mondiale. Ecco cosa può voler dire “partnership”, senza essere incoerente con il “Marchionne-pensiero” finora manifestato.
Comunque sia, che aspetta il Presidente del Consiglio a convocare la Fiat e farsi spiegare una buona volta cos’ha in mente di fare e quali impegni – impegni – ha intenzione di prendere e, finalmente, mantenere?