Sulle pagine del blog più popolare d’Italia – quello di Beppe Grillo – sono in questi giorni comparse parole che è quantomeno auspicabile inneschino un dibattito serio sul futuro del lavoro. Altrettanto auspicabile è, tuttavia, che il lavoro di domani non abbia quei connotati che il Movimento 5 Stelle afferma, perché porterebbero il Paese in una situazione di crisi della democrazia per come siamo abituati a conoscerla.
Sul punto abbiamo già scritto, la disintermediazione del lavoro è infatti da sempre un cavallo di battaglia dei cinque stelle. In sintesi, la democrazia diretta consisterebbe nel contatto non mediato, attraverso il web, tra il Parlamento e i cittadini-elettori. Bisogna fare una legge sull’agricoltura? Chi meglio di un agricoltore – dicono Grillo e amici – sa di cosa stiamo parlando e come si può legiferare? Al di là del fatto che, nella fattispecie, non tutti gli agricoltori possono avere così chiaro quali siano i propri bisogni, non è nemmeno detto che le esigenze di ciascun agricoltore coincidano. Questo è il compito di mediazione che, nelle economie avanzate, viene assolto dai corpi intermedi ed è ciò che le rappresentanze in generale – al di là della loro innegabile e preoccupante crisi – svolgono come funzione e contributo fondamentale per la democrazia. Ciò è scolpito non solo dai più autorevoli studiosi e politologi della storia, ma dalla storia stessa. La democrazia diretta, semplicemente, non esiste: ciò che il M5S chiama in quel modo è l’anticamera di un regime autoritario.
Per non parlare poi del reddito di cittadinanza: si può fondare un Paese sul reddito a prescindere dal lavoro? L’articolo 1 della nostra carta fondamentale ha sigillato la grande alleanza tra culture politiche diverse e l’impegno a ricostruire un Paese distrutto dalla guerra con il lavoro e la fatica. Forse oggi andrebbe rispolverato e spiegato alle nuove generazioni.
Venendo tuttavia al grande tema dei nuovi assetti regolatori del lavoro futuro, è inevitabile che i connotati saranno profondamente diversi da quelli attuali e che saranno proprio le rappresentanze del lavoro e dell’impresa a sancirne la trasformazione. La società di domani ha bisogno di essere più inclusiva, di allargare lo spazio del lavoro. Ciò non è semplice perché la nostra epoca non è caratterizzata dalla crescita del lavoro: crescita economica non significa necessariamente crescita del lavoro; questo per via, anche, dal processo di digitalizzazione in corso, processo che renderà superflue molte posizioni lavorative. Certo, si creeranno nuovi lavori e nuovi posti di lavoro; ma ci vorrà del tempo per compensare a questo gap. Quindi, “lavorare meno per lavorare tutti” – idea ripescata dai 5 stelle, ma che è di altri – è un’ipotesi molto realistica del lavoro futuro.
Non si può però chiedere di lavorare meno e ridurre i salari: questi vanno mantenuti ai livelli attuali e, certamente, il conto non può essere pagato dalle imprese. Questo differenziale può essere coperto tuttavia dalle risorse investite nelle politiche passive del lavoro. Si tratta di un’operazione complessa, ma assolutamente alla portata. Anche perché, più persone al lavoro significa più consumo; e, quindi, più entrate per lo Stato e, in ultimo, una società più in equilibrio (che è il vero fine per cui deve lavorare il decisore politico).
La riduzione dell’orario di lavoro e lo smart working – le 8 ore nascono nell’800 con l’introduzione del sistema di fabbrica – sono il viatico verso il lavoro futuro e verso Industry 4.0. Ciò non solo può segnare una svolta per l’economia – lavorare meno = più lavoro per tutti -, ma anche per il vivere sociale: può ovvero garantire più tenuta alla società e segnare l’inizio di un processo di umanizzazione dei luoghi di lavoro. Il lavoro deve tornare a essere a misura d’uomo: questo è il compito più importante che hanno oggi le rappresentanze e che non possono fallire, pena la loro stessa sopravvivenza. Diversamente, avremo lavoro e società a 5 stelle. Ma non chiamiamola democrazia.
Twitter: @sabella_thinkin