Salite al Campidoglio, troverete lì il simbolo di Roma: una lupa che allatta due gemelli. Madre potenzialmente feroce e tuttavia generosamente adottiva, calda e accogliente. Mamma Roma. La metafora è potente e ancora valida dopo secoli e secoli. Nel simbolo che il mito ha scelto si distinguono i caratteri di una città, e non di una città qualsiasi, ma di una città che ha preteso di essere, ed è stata, e forse ancora è, Caput Mundi.
Un grande immigrato di lusso, Federico Fellini, ha raccontato la città in un indimenticabile film (“Roma” del 1972) proprio partendo dal generoso decolleté di una lupa contemporanea trovata su un marciapiede della metropoli di oggi.
E allora che cos’è Roma per noi romani di adozione? Siamo tanti, tantissimi ad averla scelta come nostra dimora, il luogo dove nascono i tuoi figli, dove ti senti a posto. Siamo venuti in tanti a abbeverarci alla Lupa.
E spesso fra di noi ci chiediamo perché mai resistere a tante difficoltà pratiche e logistiche, a tante cafonerie e cialtronerie, e non tornare da dove siamo venuti. «Ma non ce l’hai una casa?» diceva il più romano di tutti, Alberto Sordi, «e allora stattene a casa!».
CONTINUA A LEGGERE CLICCANDO SULLA FRECCIA
Ma poi i pensieri stanno a zero (come le chiacchiere) e dobbiamo ammettere che l’idea di tornare nel luogo dove siamo nati è come il servizio dei piatti di lusso, quello davvero bello, che se ne sta chiuso in armadio anche a Natale. E non si usa mai se non come riserva mentale ultima: «Se viene a trovarci il Papa…». Un’opzione che continuiamo a non preferire nello sliding doors della vita.
Roma in realtà ci ha conquistato, è entrata nella nostra testa, ci ha prima ammaliato, poi stordito, poi ancora viziato con la sua struggente bellezza. Con le sue abitudini millenarie. Le strade che ogni giorno percorriamo hanno una profondità storica senza eguali nel mondo e una prospettiva estetica su cui si sono cimentati geni assoluti. Ci sono molte Rome in questo senso: quella antica dei Fori, quella medievale dei Santi Quattro e del primo orto benedettino a San Gregorio, quella rinascimentale di piazza del Campidoglio e di piazza del Quirinale, quella barocca, del Gesù e di palazzo Spada… Michelangelo, Caravaggio, Bernini… C’è la Roma dei primi apostoli, il Quo vadis, San Paolo alla Regola, il carcere Mamertino… La Roma del Seicento, con quei santi che ti conquistano il cuore, come Sant’Ignazio e San Filippo Neri e tante tante altre cose.
È vero, ci sono i romani. E qui qualche difetto emerge. Ma abbiamo imparato a voler bene anche a loro. Al loro modo di farsi i fatti degli altri, di essere rumorosi (caciaroni), di apparire sempre un po’ esagerati nel vestire, di riproporre un sano cinismo popolare rispetto a tante cose considerate dagli altri italiani con più sussiego e spesso malcelata invidia. Come i politici o gli ambasciatori.
CONTINUA A LEGGERE CLICCANDO SULLA FRECCIA
Qua il potere corre sotto i ponti del Tevere da secoli e i quiriti lo pesano con una bilancia tarata dalla saggezza del tempo.
La variegata e realistica lingua dei romani (che sarebbe riduttivo limitare al dialetto) è il segno della ricchezza nei loro rapporti. Anvedi viene dritto dal latino, l’antico an videas, se solo vedessi… Piotta viene dall’ultimo Papa Re, Pio IX, effigiato sulla moneta base del commercio romano. Il tua dei mortacci è un neutro plurale, senza dubbio, e l’insulto è cocente perché si riferisce ad un culto atavicamente sentito, i Lari e i Penati… I figli di una mignotta, hanno una mater ignota, anche se in realtà è il padre che non si conosce, o quantomeno è incerto. Una lingua vivace e colorita, come colorite e sempre attive sono le relazioni sociali.
Intendiamoci: a differenza di Dostoievskij non penso che la bellezza salverà il mondo, ad Auschwitz i violini suonavano Mozart durante l’olocausto. E tuttavia la bellezza aiuta, introduce, spalanca l’animo. E quindi noi spiriti deboli, giunti da ogni dove, non riusciamo più a staccarci dalla grande bellezza che domina Roma.