«L’ultimo episodio di violenza avvenuto a Roma è qualcosa di inaudito, che una società civile deve innanzitutto condannare, ma soprattutto dovrebbe essere in grado di prevenire. Quando assistiamo all’uccisione di una bambina e di suo padre, si tratta di qualcosa di veramente drammatico che non possiamo accettare, e abbiamo il dovere di fare in modo che queste situazioni non avvengano, e se c’è della violenza bisogna preoccuparsi immediatamente delle cause». IlSussidiario.net ha contattato Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, per commentare il recente duplice omicidio avvenuto a Roma in cui hanno perso la vita un uomo di nazionalità cinese e la piccola figlia di appena nove mesi. In una intervista al Messaggero, il ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi, parlando dell’accaduto, si chiede «dove stia andando la periferia», che ormai somiglia sempre più a «deserti di individui» in una città «malata». Secondo Riccardi anche il centro storico di Roma «rischia il modello Venezia, sempre meno cuore della città e sempre più mercato, con le piazze storiche sostituite dagli outlet e le periferie isolate dal resto della città». Per questo è necessario che si recuperino quegli «spazi del vivere insieme», dove le comunità etniche «possono anche diventare delle preziose risorse. Dipende se si ghettizzano oppure si integrano».
Presidente La Manna, in che modo è possibile intervenire?
Anche noi siamo una di quelle realtà che, insieme a Caritas e ad altre associazioni, svolgono un servizio nel sociale proprio per tenere bassa la tensione, impedire o prevenire la nascita di conflitti. Quotidianamente, quando non si trovano risposte ai bisogni concreti, è sempre difficile controllare che tutto funzioni bene ma soprattutto è quasi impossibile prevenire episodi di violenza.
Come mai?
Se la nostra società lascia che una persona viva per strada, senza preoccuparsi di una progettualità per lei, questa facilmente diventerà vittima di tutti quei traffici illegali che vanno dalla droga, alla prostituzione, fino a qualsiasi altra attività criminale. E’ quindi importante intervenire sulle persone proprio per evitare che rimangano esposte a sfruttamenti che possono portare naturalmente anche alla violenza.
Secondo lei la periferia è davvero abbandonata a sé stessa?
Non credo che c’entri molto la questione tra centro e periferia, anche se certamente la periferia intesa come luogo dove l’attenzione è minore e dove anche i servizi sono più scarsi, diventa un luogo dove i conflitti possono essere più frequenti e violenti. Credo però che ogni città debba recuperare un vero senso di comunità, perché non basta dire che il centro accoglie mentre la periferia non accoglie: è l’intera città ad accogliere, e se lo fa nel modo giusto qualsiasi zona o quartiere fa parte di questo sistema di accoglienza, nonostante le tante difficoltà che ci sono.
Cosa fare quindi?
Si tratta di una battaglia culturale perché la città, oltre ad essere fatta di palazzi e edifici, è costituita soprattutto da cittadini, e una cultura accogliente attenta deve essere progettuale e favorire l’integrazione, smussando notevolmente le possibili tensioni. Bisogna però dire che paghiamo molto per un limite del nostro sistema: nonostante si cerchi di accogliere tutti, rispettando la dignità e i diritti delle persone, qualcuno non ha il titolo, per le convenzioni e leggi che abbiamo, a permanere sul territorio italiano. Il fatto è che dopo non accade nulla, e avere sul territorio persone che non potrebbero restarci le espone a una vita illegale che è fatta anche di violenza. L’esperienza della mensa ci dice che le persone che non hanno nulla da perdere fanno fatica a integrarsi e sono quelle che poi danno origine a episodi di violenza, e lo straniero che in Italia ha avuto la sfortuna di sperimentare il carcere, una volta uscito e rimanendo sul territorio farà sicuramente molta fatica a rifarsi una vita, tenendo anche conto del contesto che è di forte crisi.
Cosa può dirci invece riguardo la comunità cinese?
La comunità cinese fatica a integrarsi, e l’esperienza degli anni passati di confronto e dialogo anche con altre realtà lo conferma. Forse negli ultimi tempi c’è una maggior apertura perché si tratta di una comunità completamente autosufficiente: vengono in Italia per lavorare, ma lo fanno per altri cinesi, quindi in un contesto in cui il rapporto con il territorio è veramente limitato.
(Claudio Perlini)