Lo scontro tra Procura e governo sul caso Ilva, giunto ormai alla sua fase conclusiva, potrebbe presto mettere la parola fine a una spinosa vicenda che trova le proprie origini nei decenni passati. E’ per questo motivo, come ci spiega Aristide Police, professore di Diritto amministrativo presso l’Università Tor Vergata di Roma, che ignorando l’articolato evolversi della vicenda nel corso del tempo si rischia di considerare e giudicare le diverse posizioni assunte dalle due parti in campo con un inevitabile strabismo interpretativo che offuscherebbe l’obiettiva verità. Dopo aver dato parere negativo sull’istanza di dissequestro dei prodotti finiti e semilavorati posti sotto sigilli il 26 novembre, avanzata dai legali dell’Ilva, la Procura della Repubblica di Taranto ha rimesso gli atti al giudice per le indagini preliminari al quale ha chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla legge 231 del 24 dicembre 2012. “La posizione legittimamente assunta dalla Procura – aggiunge Police – può essere anche considerata comprensibile e apparentemente non censurabile. Tuttavia, sono dell’idea che una lettura della compatibilità costituzionale del decreto e della conseguente legge di conversione debba essere svolta non soltanto con riferimento a degli astratti parametri di legittimità costituzionale, ma essere considerata alla stregua della situazione di fatto che quegli accadimenti e quel tipo di decretazione d’urgenza hanno reso necessaria”.
Arrivati però a questo punto, in che modo potrà sbloccarsi la situazione?
Siamo giunti a un punto di conflitto talmente forte che probabilmente potrà essere risolto in modo definitivo solo dalla Corte Costituzionale che, come hanno dimostrato vicende recenti in materia di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, può essere anche molto rapida nel prendere le proprie decisioni. Se quindi esiste effettivamente un ricorso di questo tipo in merito ad alcune previsioni della legge 231 del 2012 di conversione del decreto salva-Ilva, sarà indubbiamente questa la via maestra per sciogliere il conflitto e quindi chiudere la partita. C’è però un fattore che risulterà essenziale in questo ambito.
Quale?
Quello del tempo, che rappresenta anche uno degli elementi che costituiscono il parametro della valutazione di costituzionalità o meno della misura del decreto legge. Il tempo, infatti, in questo caso è collegato all’esigenza di non interrompere il processo produttivo, o parte di esso, determinando quindi la chiusura complessiva dell’impianto produttivo. E’ questo l’elemento differenziale rispetto a un discorso che solamente in astratto potrebbe condurre ad attribuire ragione alla posizione della Procura. Come dicevo, però, vi sono altre considerazioni in punto di fatto che hanno giustificato la misura della decretazione d’urgenza e che hanno consentito, anche a un esame solo iniziale ed esterno quale quello svolto dal Capo dello Stato, di promulgare la legge senza dover valutare la presenza di un eventuale vizio di legittimità costituzionale del decreto stesso.
Si aspettava questo scontro tra Procura e governo? Non poteva essere immaginata una via alternativa per arrivare a una soluzione condivisa?
Certamente una strada più diplomatica e meno aspra sarebbe stata preferibile, ma sarebbe stato necessario che entrambi i poteri, giudiziario ed esecutivo, condividessero questo comune intento. Lo scontro, invece, si è sviluppato proprio perché sono sorte interpretazioni assai diverse degli interessi della collettività.
Diverse in che modo?
Da parte del potere giudiziario vi è stata l’applicazione di misure cautelari che hanno di fatto ignorato le conseguenze di altro genere, cioè di ordine sociale e collettivo, derivanti da un’eventuale misura di sequestro. A fronte di questa circostanza, cioè del fatto che l’applicazione mera del diritto produce tali effetti su una realtà geografica molto complessa caratterizzata da un’economia stagnante in fase di costante crisi congiunturale, il governo ha ritenuto di dover intervenire e limitare con legge i poteri anche cautelari dell’autorità giudiziaria.
Possibile che non si tenga conto degli evidenti effetti negativi delle varie decisioni prese?
E’ evidente che un’eventuale permanere del sequestro e quindi dalla conseguente attività d’impresa implicherebbe conseguenze devastanti in termini occupazionali ed economici, ma credo che anche la magistratura ne sia ben consapevole, pur ritenendo di non poterne avere considerazione nella sua valutazione del caso. A questo punto, però, dobbiamo porci una domanda.
Quale?
Quale tipo di bene giuridico o di interesse pubblico viene ad essere tutelato dalla misura cautelare? In questa valutazione giuridica si è soliti contrapporre l’interesse dell’occupazione di un alto numero di persone con l’interesse alla salute di un numero ancor maggiore di persone che sono gli abitanti di quell’area, interessi entrambi meritevoli di tutto il rispetto del caso. Il problema, però, è che la misura del sequestro non interrompe, né preclude e né determina effetti salvifici rispetto all’interesse o al diritto alla salute delle popolazioni di quell’area. Anzi, è vero proprio il contrario, come ha ribadito più volte, a mio giudizio giustamente, il ministro Clini.
Si spieghi meglio.
E’ indubbio che dal blocco dell’attività produttiva può derivare soltanto un danno anche alla tutela della salute, visto che è proprio la continuazione dell’attività d’impresa a giustificare e consentire all’impresa stessa di porre in essere i dovuti accorgimenti e i conseguenti oneri economici volti all’eliminazione dei profili di danno ambientale o di cause generative di danni alla salute.
Cosa che non può avvenire con il permanere del sequestro…
Esatto. Il sequestro, che determina la cessazione dell’attività d’impresa, di fatto preclude qualsiasi attività volta a limitare o a eliminare le cause del pregiudizio alla salute. Proprio questo è infatti, a mio giudizio, il dato positivo del decreto, vale a dire quello di collegare la possibilità di prosecuzione dell’attività d’impresa all’adempimento di una serie di obblighi e al rispetto di una serie di vincoli imposti nell’ambito del procedimento di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), che è appunto oggetto dello scrutinio molto stretto del ministero dell’Ambiente. Se questa attività d’impresa non potrà continuare, è chiaro che la richiesta di riesame di questa Autorizzazione per l’impianto verrà meno e con essa anche tutte le misure volte all’eliminazione delle cause, o di parte di esse, che provocano danni alla salute e non solo.
(Claudio Perlini)