Che la crisi stesse falcidiando migliaia di imprese si sapeva. Probabilmente, tuttavia, nessuno avrebbe mai immaginato esattamente quante: 12.463. Sono i fallimenti che, secondo Cribis D&B, società del Gruppo Crif, ci sono stati nel 2012. 34 al giorno mentre, negli ultimi 4 anni, dall’inizio della crisi, se ne sono registrati 45.301 in tutto. Eppure, solo pochi giorni fa, avevamo scoperto che l’export italiano, nel 2012, non era mai stato così alto dal 2002. L’anno appena trascorso, infatti, ha chiuso con 8,8 miliardi di surplus della bilancia commerciale aggregata. Abbiamo chiesto all’onorevole Raffaello Vignali come interpretare questi dati.
Non c’è un conflitto tra il boom dei fallimenti e quello delle esportazioni?
Non direi. La spinta a esportare rappresenta un trend che, da tempo, non si è mai arrestato. Negli ultimi dieci anni, le imprese internazionalizzate sono raddoppiate. Resta il fatto che le sofferenze sono ancora alte. Il mercato principale delle aziende italiane, anche di quelle che esportano, è pur sempre l’Italia. O, quanto meno, l’Europa. Va da sé, quindi, che la crisi sta contribuendo notevolmente ai fallimenti. Ma non è di certo l’unico fattore.
Quale sono gli altri?
Un’impresa su tre fallisce non tanto a causa dei propri debiti, quanto dei propri crediti. Si tratta di quelle imprese che non riescono a esigere i soldi che le pubbliche amministrazioni o altre imprese devono loro. Stiamo parlando di 70 miliardi di insoluti da parte della P.A., e di 30 da parte del settore privato. Questi 30 miliardi, in parte dipendono a loro volta dall’insolvenza dello Stato. Che, se non paga un’impresa, la mette nelle condizioni di non pagare i propri fornitori. Oltre alla crisi e ai mancati pagamenti da parte dello Stato, poi, spesso le aziende falliscono per colpa delle banche.
Ci spieghi.
Basilea 2 e Basilea 3 hanno imposto alle banche vincoli tali da ridurne notevolmente l’erogazione del credito. Vincoli spesso assurdi e astrattamente formali. Ci sono, per esempio, aziende sane, con ingenti ordinativi e i cui bilanci sono in ordine, ma che non riescono ad accedere a finanziamenti perché prive di liquidità; e sono prive di liquidità perché lo Stato non ha pagato le loro forniture o i loro servizi. Tale condizione è anche il motivo per cui, spesso, falliscono perché vessate da Equitalia. Non dimentichiamo, infine, le imprese dell’export, quelle che vantano la maggior parte di crediti fiscali, perché normalmente non pagano l’Iva, e che lo Stato non gli rimborsa. Parliamo di almeno 10 miliardi. In sostanza, le imprese, molto spesso, chiudono non per colpa loro.
Quanto influiscono tasse e burocrazia sul fenomeno?
Moltissimo. Spesso l’imprenditore, quando si rende conto che il 70% dei propri ricavi va in tasse, si chiede chi glielo faccia fare di continuare. E preferisce chiudere. Se poi, su dieci dipendenti, una persona deve essere destinata a tempo pieno a seguire le questioni burocratiche, significa disporre di un 10% produttività in meno.
Perché la situazione è così?
Perché scontiamo decenni di assenza totale di politica industriale e dell’incapacità di aver prodotto un contesto favorevole alle imprese. Perché il contesto sia tale, uno tra i principali fattori è la produttività. Se lo Stato fa di tutto per sottrargliela, è come se gli togliesse l’ossigeno. Il problema è che manca la consapevolezza del fatto che in qualunque Paese sia la ricchezza che il gettito fiscale sono prodotti, prevalentemente, dalle imprese.
Lei cosa suggerisce per invertire la rotta?
Per colpa della burocrazia e del mancato rispetto dei tempi per qualsivoglia procedura (basti pensare ai termini per ottenere una valutazione d’impatto ambientale: 3 anni in Italia, 2 mesi in Svizzera) perdiamo 3 punti di Pil all’anno. Questo sarebbe il primo fronte su cui agire. Sarebbe meglio, inoltre, abolire tutti gli incentivi a bando, spostandoli sulla leva fiscale. Solo l’imprenditore, infatti, sa di cosa ha bisogno la propria azienda, e un significativo abbattimento impositivo gli garantirebbe quella liquidità necessarie per rilanciare gli investimenti, la produttività e, di conseguenza, l’occupazione.
(Paolo Nessi)