Una nota di sette pagine pubblicata su Science del 20 maggio 2010 ha provocato annunci in tutti i notiziari e titoloni su molti quotidiani: «Così nasce la vita artificiale», «Ora la cellula non ha più segreti» e via di questo passo fino a dichiarare che «Quello che manca adesso è solo costruire artificialmente anche la cellula che ospita il Dna».
Il fatto, come alcuni giornali correttamente hanno riportato, è che un’equipe di 24 ricercatori, all’opera presso l’Istituto J. Craig Venter a Rockville, USA, ha costruito, utilizzando tecniche di ingegneria genetica diffuse, una cellula batterica controllata da un genoma ottenuto per sintesi chimica. Pochi giornali hanno pubblicato commenti che permettessero, anche a chi non è del mestiere, di capire la portata di questo evento.
Riproponiamo il commento di Augusto Pessina, così come è stato pubblicato su Avvenire del 25 maggio 2010. È una riflessione che non ha solo carattere tecnico e l’autorevolezza di un esperto nel campo (Pessina è Presidente della Associazione Italiana di Colture Cellulari e professore di Microbiologia e Virologia alla Università degli Studi di Milano), ma anche la consapevolezza che il senso della «vita» ha un respiro immensamente grande, più dei tentativi che portano l’uomo a manipolare organismi viventi con tecnologie di livello sempre più elevato.
Ho sentito con le mie orecchie in convegni e dibattiti chiamare «progetto di vita» un embrione umano interamente formato e in sviluppo nel grembo della madre. Leggo, in questi giorni, sui giornali che un piccolo micro¬scopico battere è «vita». Mi sembra un bel passo avanti.
Chiamare la manipolazione fatta da Venter «creazione di vita artificiale» è veramente fuori da ogni paradigma perché non solo non c’è stata nessuna creazione e poco o niente è stato fatto di artificiale… molto direi di artificioso. Infatti il gruppo di Rockville ha usato una «vita» già esistente il cui DNA è stato sostituito con un DNA preparato in laboratorio e la cui sintesi è stata fatta utilizzando cellule di lievito e quindi altri «esseri viventi».
Tutto questo non diminuisce l’importanza del lavoro fatto da Venter e l’alto livello tecnologico espresso da questo lavoro che pare sia costato la bellezza di 30 milioni di dollari.
Il fatto più inquietante è che i mezzi di comunicazione hanno caricato questo risultato di fattori ideologici che hanno alimentato grande confusione. Il grande scienziato Erwin Chargaff (il cui lavoro sull’accoppiamento delle basi ha permesso di scoprire la doppia elica del DNA) scriveva «Non sappiamo cosa sia la vita, eppure la manipoliamo come fosse una soluzione salina».
In questo caso hanno manipolato il risultato di un esperimento tecnologico trasformandolo nella risposta a quelle domande che la filosofia e la scienza si pongono da millenni e cioè «cosa è la vita». Non solo, ma hanno introdotto un concetto di vita assolutamente riduttivo: una cosa è la vita biologica altro è «la vita» nel senso personale che ognuno di noi percepisce.
Eppure nel clima di totale nichilismo in cui ci tocca di vivere, forse, questo modo di porre il problema potrebbe anche aver qualche risvolto positivo. Quello di aiutare ciascuno a riporre la domanda giusta: ma allora «cosa è la vita?». È probabile che anche il più sprovveduto dei lettori può rendersi conto che questa domanda va oltre la biologia perché è una domanda che riguarda il senso stesso della «vita umana» visto che è un soggetto umano che la pone. Che senso avrebbe discutere sulla «vita» in modo astratto? Interessa davvero una discussione biologica che non abbia una ricaduta sul senso del proprio esistere e di quelli cui si vuole bene? Scrive Luigi Giussani in suo libro: «Cosa è la vita più che la salute, i soldi, il rapporto tra l’uomo e la donna, i figli, il lavoro? Cosa è la vita più di questo? Cosa implica ? La vita implica tutto questo, ma con uno scopo di tutto, con un significato.»
Perfino Karl Popper scrive «Non sappiamo come si possa spiegare, e se sia spiegabile che noi viviamo su questo piccolo meraviglioso pianeta. Ma noi siamo qui e abbiamo ogni motivo per stupircene ed esserne riconoscenti. È certo un miracolo. Tutti gli uomini sono filosofi e ve ne sono alcuni che reputano la vita priva di valore perché essa ha un termine. Trascurano che l’argomento opposto è altrettanto sostenibile: se non vi fosse una fine la vita non avrebbe alcun valore. Trascurano che è in parte il costante pericolo di perdere la vita che ci aiuta a comprenderne il valore». Ma non è proprio questo senso della sua finitezza che pone alla coscienza, per contraccolpo, l’interesse per ciò che dura, per ciò che sia eterno? È questa profonda riflessione che fa dire al grande teologo Romano Guardini «L’eterno non è in rapporto con la vita biologica, bensì con la persona. Essa non conserva quest’ultima perpetuandola, bensì la realizza in senso assoluto. È man mano che la fine si avvicina che si vede chiaramente che la vita ha un significato che trascende la vita stessa».
Ma questo significato non lo può dare la scienza e tanto meno la tecnologia. Questo significato lo potremo trovare solo se avremo il coraggio di andare al fondo della nostra umanità dove nasce il desiderio di infinito e di eterno cioè a quel «cuore» di cui ogni uomo è fatto, l’immagine e la somiglianza con il suo Creatore.
Augusto Pessina
(Presidente della Associazione Italiana di Colture Cellulari e Professore di Microbiologia e Virologia alla Università degli Studi di Milano)
© Pubblicato sul n° 39 di Emmeciquadro – Reprint da Avvenire del 25 maggio 2010