Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, non ci tiene a schierarsi tra i critici di Mario Monti. Certo, “le misure di consolidamento fiscale varate prima dal governo di Silvio Berlusconi e poi da quello di Mario Monti hanno avuto effetti negativi sulle attività superiori alle attese”, come lo stesso Blanchard ha ben illustrato in un recente studio sui guasti che può produrre l’eccesso di austerità, ma non è il momento di infierire come ha fatto il Financial Times. “La vera domanda è se c’era alternativa”, commenta Blanchard rispondendo in conferenza stampa. “Se si torna solo a qualche tempo fa c’era un’enorme pressione da parte dei mercati per programmi di consolidamento fiscale e ci si chiedeva che cosa sarebbe successo se non si fosse proceduto per quella strada. Perciò la verità è che non c’era molta scelta sull’entità e sulla rapidità delle misure da adottare”.
Inutile, insomma, prendersela con le scelte obbligate dell’esecutivo, anche se il prezzo pagato è stato altissimo, ben oltre il temuto. Semmai, è il caso di non sprecare il frutto delle fatiche passate, ovvero il ritorno dello spread a tassi più sopportabili, circostanza che vale un risparmio di 10 miliardi l’anno in termini di interesse sul debito pubblico/privato. E, soprattutto, di venire incontro alla nuova pressione, robusta se non enorme, in arrivo dai mercati: l’Italia deve tornare a crescere. Il che equivale a mettere finalmente in cantiere quelle riforme, mercato del lavoro (ma non solo) in testa, senza le quali l’Italia resta l’unico Paese dell’Ue che non ha ridotto, ma semmai allargato, la forbice di competitività con la Germania.
Risalire la china non sarà impresa facile, anche perché i tempi non sono così propizi come tendono a far credere alcune previsioni (comprese quelle dello stesso Blanchard), che pure contrastano con i dati a disposizione. Nelle ultime settimane abbiamo visto: a) il calo delle stime della Bundesbank sulla crescita tedesca per il 2013; b) la Banca d’Italia allungare i tempi della nostra recessione, con il Pil in calo dell’1% nell’anno appena iniziato; c) la previsione al ribasso da parte del Fondo monetario internazionale per l’economia globale, Italia compresa, cui fanno eco le stime di JP Morgan sulla crescita del primo trimestre: Eurozona zero, Stati Uniti + 1% su base annua, Giappone solo +0,8% nonostante gli ordini del nuovo governo di reflazionare l’economia anche a costo di rischiare lo scoppio di una guerra valutaria e delle tensioni protezionistiche, l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno.
Certo, non ci sono solo i segnali negativi. Gli Usa crescono, seppur non di molto, la macchina cinese sembra tornare a correre a pieno regime, la medicina dei tassi quasi a zero permetterà di evitare le sorprese peggiori. Almeno per un po’. Ma per l’Italia il quadro, pur infinitamente migliore di un anno fa, resta incerto. Per ragioni internazionali e interne.
La riduzione dello spread rallenta l’aumento del debito, ma non è sufficiente da solo a rimettere in moto la crescita in un momento in cui le banche cercano di diventare più piccole e lesinano il credito all’esterno. Soprattutto perché sentono la pressione delle autorità e dei mercati perché aumentino gli accantonamenti a fronte di incagli e sofferenze nascosti per troppi anni sotto un tappeto virtuale: il caso Monte Paschi è una patologia isolata (speriamo), ma il problema dei nodi che vengono al pettine comincia a farsi sentire.
A fine 2011 gli accantonamenti furono superiori alla somma dei due esercizi precedenti. Che accadrà se, come pare possibile, il trend è destinato a continuare? Inevitabile a questo punto la richiesta di accantonare a riserva tutti gli utili a scapito dei dividendi, come potrebbe presto chiedere il governatore Ignazio Visco: una prospettiva drammatica per le Fondazioni che in questi anni hanno difeso il controllo in mani domestiche dell’industria del denaro
Le imprese, dal canto loro, non aumentano di sicuro la richiesta di nuovi crediti, come è ovvio visto che la marginalità resta bassa. Si verificano così situazioni paradossali: una parte della domanda del made in Italy, come emerge dal settore tessile-abbigliamento, non viene coperta per un gap di produzione. Chi se la sente di investire (e di assumere) in un quadro di incertezze, soprattutto fiscali, così estreme?
In questa cornice l’Italia, come la Spagna e altri paesi, si trova a un bivio insidioso: se smette di puntare a una riduzione del disavanzo, il debito cresce di nuovo oltre i livelli di guardia; se si aumenta ancora la pressione fiscale, si rischia l’avvitamento. Non resta che puntare sull’export, ma su questo fronte l’Italia, causa i problemi di competitività (e di prodotto) non è certo nel plotone di testa. La congiuntura non permette del resto di sperare in tesoretti o vari o, peggio, di accendere nuovi debiti.
Al di là delle rassicurazioni del ministro dell’Economia uscente, Vittorio Grilli, il rischio di una manovra correttiva incombe. Non per il 2013, a meno che la frenata del Pil non sia così profonda da costringere a correzioni di rotta repentine (anche se gli ammortizzatori sociali andranno con ogni probabilità rifinanziati già tra pochi mesi). Ma nel 2014, se non succede qualcosa di nuovo in grado di metter sotto controllo il debito, una correzione di rotta sembra quasi inevitabile. A meno che, con la prossima legislatura, non si cambi rotta.
È su questo tema più che sulle invettive personali che dovrebbe concentrarsi la campagna elettorale nell’ultimo mese prima del voto. E su questo terreno si può avanzare qualche modesto consiglio:
1 – Il primo problema delle imprese è la mancanza di liquidità. All’origine del fenomeno, che rende spesso problematica l’attività ordinaria (altro che investimenti!), ci sono i crediti nei confronti della Pubblica amministrazione: 90 miliardi in tutto, di cui 48 già vistati dagli uffici di competenza. Questi quattrini vanno pagati subito, nei primi cento giorni di governo. Potrà essere la Cdp a fornire la soluzione ponte. Oppure si inventi qualcos’altro, ma si risolva il problema così come prevede tra l’altro la direttiva Ue. Inutile obiettare che, così facendo, si peggiorerà il debito pubblico: i mercati hanno già scontato questa somma, per cui non ci sarà alcuna reazione negativa. Se non positiva perché, così facendo, l’esecutivo dimostrerà di avere a cuore il lavoro.
2 – Venga sospeso, con effetto immediato, il decreto che prevede sì da gennaio il pagamento entro 30 giorni (60 per la sanità) per le nuove spese della Pa, ma che contiene regole offensive della dignità dei cittadini, trattati peggio che sudditi. La disposizione, infatti, non si applica alla sanità del Lazio, in pieno sfacelo, o a quella delle regioni commissariate. Insomma, al solito viene premiato il peggiore. Basta con questi inghippi da azzeccagarbugli.
3 – Venga annunciata una terapia d’urto sul lavoro, sulla R&S, sull’innovazione, sul turismo e così via. Guai scegliere la politica dei piccoli passi con cui non si liberalizza neanche una spiaggia o si vende una caserma. Occorre un confronto su un pacchetto a 360 gradi, su cui confrontarsi a tutto campo.
4 – Belle parole, poi non cambierà nulla. Proviamo ad adottare la norma americana votata dal Congresso assieme al rinvio del debt ceiling: lo stipendio dei parlamentari verrà versato solo dopo che l’accordo finale diventerà legge. Ovvero: finché il Parlamento non darà il via a un pacchetto di riforme organico, gli stipendi resteranno congelati nella Tesoreria di Stato. Potrebbe davvero essere la madre di tutte le riforme.