La valanga che si sta abbattendo sul sistema economico italiano non accenna a fermarsi. Dopo le pagine bollenti dedicate a Mps, ora è il momento di Eni e Finmeccanica, ma non possiamo dimenticare il famigerato caso Parmalat. La tentazione forcaiola che tanto appassiona la campagna elettorale e i “generici parlanti” che la animano è di derubricare tutto a un problema della politica e delle sue scelte. Certo, non si può tacere che dietro queste vicende sta spesso la politica con i suoi attori, ma è ora di affermare con chiarezza quello che solo Maurizio Cattelan ha detto qualche giorno fa. Il problema non è della politica e dei suoi attori, ma del sistema delle regole che è stato costruito senza gli antidoti a quel noto familismo amorale che alberga nel nostro Paese e a fortiori nella nostra classe dirigente.
Pur in presenza di un sistema di governance che prevede diversi organismi di controllo e verifica, interni ed esterni a imprese e istituzioni, le inchieste rivelano fenomeni diffusi e pervasivi di corruzione, spesso segnalati da “whistleblower” (letteralmente fischiatori, ovvero persone che attirano l’attenzione all’interno dell’organizzazione) che invece di essere ascoltati sono trattati come fastidiosi disturbatori dello status quo.
Spesso questo non accade perché non sono creduti, ma semplicemente perché è difficile uscire dal complesso intreccio di relazioni che lega le persone nelle organizzazioni ed è meglio “silenziare” chi mette il dito nella piaga per tacitare la propria coscienza e poter andare avanti senza complicazioni di sorta. Lo status quo è indiscutibile, così le tangenti diventano la modalità normale di condurre il proprio business e non una stortura. In fondo, sembra ci si dica, se non lo facciamo noi, lo faranno altri e quindi siamo implicitamente “assolti”…
La struttura di obblighi reciproci che caratterizza la nostra cultura è presente in tutte le sue articolazioni, anche nelle imprese. Per questo, mutuare meccanismi di controllo e di salvaguardia da culture meno dense come quelle anglosassoni non basta. Ma non si può nemmeno farlo e poi sostenere impunemente che il problema sono le persone. Chi governa e gestisce il controllo e le verifiche, se consapevole di queste peculiarità, non si può giustificare semplicemente con le classiche “mele marce”. I casi Mps, Finmeccanica ed Eni non sono casi individuali, sono casi sistemici, dove c’è chi compie, chi lascia compiere e chi è complice. In sanità non è diverso quanto accaduto presso la clinica Santa Rita di Milano, come testimoniato dalle numerose e agghiaccianti intercettazioni telefoniche depositate negli atti del processo. Anche in quel caso, vi sono numerose persone che pur sospettando, si limitano a censurare privatamente i comportamenti, ma si sono guardate bene dal denunciarli pubblicamente, fino a quando non è scoppiato lo scandalo.
Anche la diffusione degli Organismi di vigilanza ai sensi del d.lgs 231 del 2001, appare spesso caratterizzata da un’adesione formale ai requisiti. Al punto che molti modelli organizzativi e codici etici sono abili taglia e incolla, profumatamente pagati a primarie società di consulenza, ma non processi profondi di messa in discussione e verifica dei meccanismi decisionali e dei principi a cui ci si ispira effettivamente. Sarebbe bastato un organismo di controllo a impedire quanto accaduto, ad esempio, alla Santa Rita, quando i clinici erano retribuiti in percentuale al valore riconosciuto alla clinica per le prestazioni ed agivano di fatto in totale autonomia clinica? Bastano gli organismi di vigilanza frettolosamente costituiti in molte realtà sanitarie (come già da tempo in molte imprese, ci sono in Eni, in Finmeccanica e in Mps) quando è prassi diffusa di ricompensare sul valore dei DRG che può variare da un migliaio di euro a diverse decine di migliaia se si decide un intervento poco invasivo o si propende per un intervento massivo? E questo per la sanità. Ma che dire delle modalità con le quali si costituiscono gli organismi di vigilanza (e ancora peggio i collegi sindacali) nelle imprese? Spesso in tali organismi non vi è traccia di chi abbia competenze non solo legali e contabili, ma organizzative.
Molti dei problemi sono proprio nell’efficacia dei controlli e nella valutazione dei meccanismi con cui si gestiscono processi e decisioni, temi sui quali le competenze legali e contabili hanno pochissimo da dire e meno ancora da controllare. Ancora meno questo può accadere quando ci sono evidenti commistioni tra ruoli come spesso accade per chi nel contempo agisce come legale e siede nell’organismo di vigilanza. L’autonomia che sulla carta è una delle condizioni essenziali è poi spesso del tutto formale.
Manca, infine, la piena pubblicità e trasparenza anche all’esterno su quanto l’organismo di vigilanza si trova a svolgere. Ma non sono che scoperte dell’acqua calda. Basta osservare e analizzare quello che accade per capirlo. Eppure come in molteplici altre occasioni, lo stupore si disegna sul volto di tutti gli attori, veri eredi della commedia dell’arte, politici, manager, imprenditori, investitori istituzionali, sindacati, professionisti e così via.
Strano a dirsi, ma su questi aspetti fondamentali è assordante il silenzio sia della politica, sia dell’anti-politica, entrambe occupate a rovesciarsi addosso accuse di immoralità, ma sufficientemente solidali nell’evitare di mettere in campo strumenti che non richiedano persone al di sopra di ogni sospetto, perché progettati per obbligare chiunque a una condotta corretta.