“Con questa condanna il magistrato dice basta alla solita liturgia della sinistra che considera di per sé rispettabile qualsiasi espressione dell’antagonismo, anche quando quest’ultimo si esprime attraverso tumulti dal grave impatto psicologico ed emotivo come quelli che hanno devastato Roma”. Mario Morcellini, preside alla facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma, commenta così la sentenza che condanna Ilaria Cianciamerla a due anni e quattro mesi di reclusione (pena poi sospesa). Durante la manifestazione degli indignati avvenuta lo scorso 15 ottobre a Roma, la 20enne era stata sorpresa mentre lanciava un sampietrino e quindi brandiva una spranga di ferro. Il difensore della giovane, l’avvocato Cesare Antetomaso, aveva dichiarato riferendosi all’imputata: “E’ chiaro che, ingenuamente, ha pensato di potersi difendere da altre aggressioni. E pure il lancio della pietra, sebbene sia da censurare, non ha fatto danni né colpito qualcuno”. Quella di ieri è la quinta condanna per i tumulti del 15 febbraio, dopo quelle ai danni di Giovanni Caputi, Robert Scarlat, Giuseppe Ciurleo e Lorenzo Giuliani. Per il professor Morcellini, “la condanna del tribunale di Roma sarebbe però più efficace se gli adulti non tendessero a sfuggire dal peso della loro responsabilità, segno del fatto che non hanno un progetto convincente per la loro vita e non sono quindi in grado di comunicarlo ai giovani”.
Professor Morcellini, qual è il messaggio trasmesso da questa condanna nei confronti di Ilaria Cianciamerla, la manifestante coinvolta in alcune azioni violente?
In primo luogo, non dobbiamo assuefarci all’idea che i conflitti politici in piazza debbano essere completamente depenalizzati. Nel dibattito politico, soprattutto nella sinistra, c’è una sorta di liturgia in forza di cui qualunque espressione dell’antagonismo e di un progetto politico alternativo deve essere di per sé rispettabile, quali che siano le forme che adotta. Basti pensare alla rappresentazione televisiva di conflitti come quello della Val di Susa. Di fronte alla gravità dell’impatto psicologico ed emozionale dei tumulti di Roma, non mi atterrisce quindi l’idea che ci sia una punizione anche esemplare in termini di pedagogia pubblica.
Ma chi sono veramente i giovani che hanno devastato Roma?
Su questo aspetto noi adulti dobbiamo farci un serio esame di coscienza. Negli ultimi due decenni sono stati procurati troppi danni ai giovani, soprattutto dal punto di vista culturale. Non solo in termini di precarietà lavorativa, ma anche psicologica e sociale finendo per ridurre così il loro futuro. La politica italiana del resto sembra non porsi minimamente il problema dei giovani. Occorrerebbe quindi una grande capacità di avviare un dibattito pubblico, in cui siano soprattutto gli stessi ragazzi a prendere la parola. Poiché però questo tentativo non è messo in atto da nessuna parte politica o sociale, se non in alcuni segmenti del mondo cattolico, non possiamo stupirci se il giacimento di frustrazioni che si determina tra i giovani ogni tanto perde la razionalità dei suoi gesti. La condanna del tribunale sarebbe quindi più efficace, e soprattutto più giustificata dal punto di vista etico, se gli adulti aprissero le porte del dialogo tra istituzioni e giovani, che invece sono severamente sigillate.
La sentenza è quindi proporzionata alla gravita del gesto compiuto dalla ragazza?
La condanna è sproporzionata, non tanto rispetto alla gravità del gesto, quanto piuttosto per il clima culturale che è necessario costruire in questo Paese. La pena sembra più dovuta a esigenze di comunicazione pubblica, che al rapporto commisurato tra responsabilità e risposta delle istituzioni.
Ritiene che il mondo degli adulti viva a sua volta un vuoto di ideali, e che quindi il problema non sia soltanto a livello di comunicazione?
Sì, il vero problema degli adulti oggi è che non sono adulti. I genitori fanno gli amici, i compagni di giochi, gli strateghi del tempo libero dei figli, ma la parola genitore pesa moltissimo. La crisi della genitorialità, una formula coniata da Hannah Arendt, è devastante perché non riguarda solo l’essere adulti in casa. Noi tendiamo a sfuggire alla responsabilità, che deriva dal latino “res pondus”, che significa “il peso delle cose”. La responsabilità ci pesa, è un gravame, e quindi è chiaro che se noi non affrontiamo le nostre responsabilità significa che non abbiamo un progetto convincente per la nostra vita. E se non l’abbiamo per la nostra, non potremo mai averlo per i nostri figli o comunque per i giovani in generale. L’incomunicabilità tra adulti e giovani, tra insegnanti e studenti, ma anche tra genitori e figli, rimanda non tanto al disastro della mente vuota dei figli, quanto piuttosto allo svuotamento di senso etico dei genitori, e soprattutto alla difficoltà di appartenere alla religione del bene comune. Se questa religione viene meno, perdiamo le parole per comunicare in modo convincente ai giovani.
Senza una comunicazione di valori, alla 20enne Cianciamerla rimane quindi soltanto la condanna …
E’ la condanna forse meno educativa che si possa immaginare. E’ brusca e sproporzionata e al tempo stesso non ci sono atti che la rendano sensata. E’ quindi solo l’esercizio della forza, , di cui lo Stato ha il monopolio. Solo per questo possiamo accettarla, ma se accanto all’esercizio della forza non mettiamo la forza delle idee, questa condanna provocherà solo un’altra vittima, altra frustrazione, e forse aumenterà il nostro senso di colpa.
(Pietro Vernizzi e Paolo Vites)