E’ una piccola rivoluzione per il mondo delle rinnovabili la pubblicazione, lo scorso 6 luglio, del decreto ministeriale sull’incentivazione della produzione di energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili, ovvero da tutte quelle forme di energia alternative alle tradizionali fonti fossili, quali l’eolico, la geotermia, l’idroelettrico, le biomasse, il biogas, i rifiuti biodegradabili, le maree, ecc… Molte di queste fonti hanno anche la peculiarità di essere pulite, in quanto non immettono in atmosfera sostanze nocive e/o climalteranti quali, ad esempio, la CO2. Con le nuove regole, a valere dal 2013 e assolutamente in linea con il pensiero-Paese, i cordoni della borsa degli incentivi pubblici si sono stretti: il legislatore ha, innanzitutto, fissato un tetto massimo tale per cui il costo cumulato di tutte le tipologie di incentivo non può superare i 5,8 miliardi di euro l’anno (al netto dell’incentivazione al fotovoltaico oggetto di un altro decreto).
Vale la pena segnalare che nel 2011 il costo degli incentivi alle rinnovabili elettriche sostenuto dal Gestore dei servizi energetici (Gse, l’ente pubblico che ritira l’energia ed eroga i finanziamenti) è risultato pari a 11,7 miliardi di euro, dove le voci più consistenti sono state le sovvenzioni al fotovoltaico con appena 11 TWh prodotti e quasi 4 miliardi di euro spesi (incentivo unitario di 367 €/MWh!) e agli impianti ancora in regime Cip 6 per 3,3 miliardi di euro e per 26,7 TWh, nonché l’esborso per il ritiro dei Certificati verdi per 1,35 miliardi di euro (15,5 milioni di certificati ritirati). Il meccanismo italiano prevede che l’onere sia recuperato tramite una componente tariffaria applicata alla bolletta elettrica (A3) e “tarata” trimestralmente dall’Autorità per l’energia tenuto conto dei fabbisogni di cassa del Gse che deve pagare i produttori (per alcune utenze domestiche con consumi elevati la A3 supera oggi i 50 €/MWh, più di 200 euro/anno quindi).
Ma la grossa novità del decreto sta soprattutto nel taglio del “quantum” riconosciuto alle differenti fonti e modulato in funzione delle taglie di potenza. Qualche esempio: se oggi un impianto da fonte rinnovabile incentivato, indipendentemente dalla tecnologia o dalla taglia, ricava tra prezzo di vendita dell’energia elettrica sul mercato e incentivo (certificati verdi) anche 155-160 €/MWh, nel 2013 a un nuovo impianto eolico sopra i 5 MW saranno riconosciuti complessivamente 127 €/MWh mentre a un idroelettrico sopra i 10 MW solo 119 €/MWh e a un motore che brucia biogas da discarica appena 90 €/MWh.
E poi via di corsa alla realizzazione degli impianti perché, per ogni anno che passa, i valori della tariffa scendono del 2%! Non si vuole, infatti, ripetere quanto accaduto con il fotovoltaico dove non si era tenuto conto dell’innovazione tecnologica che riduce i costi di investimento e solo con il recente quinto Conto energia, in ragione dell’elevato livello degli oneri maturati e visto il confronto con gli incentivi vigenti negli altri paesi europei, si inizia a parlare di sviluppo del fotovoltaico al di fuori degli schemi di incentivazione (un po’ tardivamente, peraltro, ormai i buoi sono… scappati dalla stalla con oltre 350.000 impianti fotovoltaici installati che godono dei vari Conti Energia per soli 15 TWh di energia prodotta che costerà al Paese qualcosa come 8-10 miliardi euro l’anno per il prossimo ventennio).
Un’altra innovazione del decreto è l’istituzione di procedure strutturate per accedere agli incentivi: per gli impianti di piccole dimensioni è prevista l’iscrizione a registri, differenziati per fonte, mentre per quelli sopra una certa soglia di potenza l’accesso avviene tramite aste al ribasso in forma telematica dato un certo valore base. E se si perde tempo, cioè non si realizza l’impianto per il quale si è ottenuto il diritto all’incentivo secondo i tempi stretti e calendarizzati dallo stesso decreto, per ogni mese di ritardo si avrà una decurtazione dello 0,5 % della tariffa fino a un massimo del 6% (o del 12% per gli impianti maggiori).
L’ammissione agli incentivi, sia tramite registro che partecipando alle aste, avviene all’interno di contingenti di potenza prefissati per ogni fonte e per il triennio 2013-2015, con criteri di priorità e solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione alla costruzione (o titolo concessorio): insomma, non basta più mettere il “cappello sulla sedia”: qualche attività propedeutica deve essere già stata avviata e un po’ di soldi già sborsati. In particolare, per quanto riguarda le aste, a cui devono necessariamente ricorrere gli impianti sopra i 5 MW (soglia che si eleva a 20 MW per le fonti geotermiche e a 10 MW per l’idroelettrico), i partecipanti devono dimostrare anche di avere una certa solidità finanziaria e godere di requisiti di capitalizzazione (il capitale sociale versato deve essere pari, almeno, al 10% del valore dell’investimento).
Insomma, sembra passato il tempo della finanza di progetto facile facile e dai ritorni a due cifre; il settore delle rinnovabili torna al suo posto, nell’alveo dell’industria, sotto il cappello delle utility che hanno anche competenze in settori molto prossimi a questo, oltre che consolidati rapporti sul territorio, il tutto nell’ottica di contenimento dei costi e dell’efficienza.
Da ultimo un piccolo neo: il decreto manca di quel largo respiro necessario agli investimenti. I contingenti di potenza incentivabile sono fissati per il solo triennio 2013-2015, quando è noto che l’obiettivo italiano del 20-20, fissato dalle direttive dell’Unione europea, è conseguire al 2020 una quota del 17% dei consumi totali coperta da fonti rinnovabili (non solo elettriche, ma anche termiche). Qualcuno ha detto che ci arriveremo prima del 2020. Ma i soldi sono finiti e i costi sono esorbitanti, ecco perché, forse, oltre il 2015 non ci sarà più spazio.