Vent’anni dopo il delitto di via Poma, arriverà oggi la sentenza di primo grado nel processo sull’omicidio di Simonetta Cesaroni. Unico indagato l’allora fidanzato della ragazza, Raniero Busco. Intanto ieri sera Paola Cesaroni, la sorella della vittima, ha rotto un silenzio che durava dal 1990, rilasciando un’intervista alla trasmissione Matrix. La Cesaroni ha ricordato i momenti del ritrovamento del corpo e il rapporto con la sorella. E ha ribadito i suoi sospetti nei confronti di Busco.
Perché tornare a parlare proprio alla vigilia della sentenza? «Spesso in tv partecipano persone che non sanno nulla del processo, poi danno giudizi prendono posizione – ha risposto Paola Cesaroni –. Fino a oggi mi è sembrato che ci sia stato sempre stato un atteggiamento a favore di questa persona (Busco, ndr), che oggi è l’indagato non perché ci sia un’ossessione o si voglia necessariamente trovare a tutti i costi un colpevole ma perché, mano a mano che si è andati avanti con le indagini, si sono incastrati piccoli elementi – che poi tanto piccoli non sono – che hanno poi dato forza a un teorema per cui la Procura ha potuto costruire un processo».
La sorella di Simonetta è tornata poi sulla vicenda del ritrovamento del cadavere, il 7 agosto 1990. Ma solo tra le lacrime riesce a rispondere alla domanda sull’ultima immagine che ricorda di sua sorella: «Purtroppo, quella che ricordo è…». Paola si ferma e piange. Poi riprende: «L’immagine di lei allegra, facciamo così?».
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Struggente la ricostruzione della scena del rinvenimento del corpo. Paola racconta a Matrix l’arrivo all’appartamento di via Poma col datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, ed il fidanzato Antonello Barone. «Hanno cercato di trattenermi ma non ci sono riusciti, io sono arrivata fino nel corridoio, fino davanti alla porta che era aperta e ho si intravedeva questa sagoma… Ho visto mia sorella insomma… Anche se non era così chiaro, non si vedevano le ferite, non si vedeva dove lei fosse. Stavo sotto shock. È stato un colpo che non si può descrivere. Crolla veramente tutto».
Dopo vent’anni di processo però la Cesaroni ha pochi dubbi su chi sia il colpevole: «Alla fine – devo dire – il sangue sulla porta all’interno dell’ufficio è il suo (di Busco, ndr), c’è la saliva, c’è il morso le tracce lì dentro non ci doveva essere niente lì dentro di quella persona e invece degli elementi ci sono, e sono molto importanti».