Fare il contro delle stangate inanellate nel corso dell’anno, in questo periodo, non è impresa semplice. Non appena metabolizzata la notizia di un prelievo aggiuntivo, giunge la novità di un altro. Chi pensava che l’Imu sarebbe stato l’ultimo e il peggiore dei mali si è sbagliato. Ce ne sarà un altro, e sarà peggiore. La Tares, la tassa sui rifiuti e sui servizi che sostituisce la Tarsu, sin qui passata in sordina, obbligherà i contribuenti, in certi casi, a versare un’imposta superiore all’importo di quella sulle abitazioni. La Uil, ad esempio, ha rivelato a Repubblica che se una famiglia media che vive in un’abitazione media ha pagato 275 euro di Imu, ne pagherà 305 di Tares. IlSussidiario.net ha fatto il punto sulla situazione con Gilberto Muraro, professore di Scienza delle finanze presso l’Università di Padova: «Cominciamo col dire che posso considerarmi l’ispiratore di questa tassa. Al di là di questo nome, nel libro bianco dell’allora ministro Tremonti, di cui avevo curato la parte relativa alla finanza locale, avevo proposto, sull’esempio francese, di introdurre una doppia tassa sugli immobili. Una sul proprietario e una sul residente, in modo da avere piena corrispondenza con la destinazione dei servizi pubblici locali che, in parte, accrescono il valore degli immobili e, in parte, contribuiscono ad aumentare il livello di vita dei residenti».
Veniamo al caso specifico: «In Italia, dove l’eventualità di gran lunga maggioritaria è quella in cui il proprietario sia contemporaneamente residente, le cose devono essere congegniate in maniera tale da non avere carichi eccessivi. Tuttavia, l’imposta sul residente, tra le due, forse è la più giusta. Non solo: probabilmente, dovrebbe essere addirittura leggermente superiore a quella sul proprietario. Tenuto conto della destinazione della spesa degli enti locali e applicando, ovviamente, il principio del beneficio. Principio che deve contemperare quello costituzionale della capacità contributiva. Ovvero, le attenuazioni da applicare a seconda delle fasce reddituali».
C’è ancora molto da fare: «La Tares è stata introdotta in maniera pressoché nascosta, senza un adeguato dibattito. C’è da auspicare, in ogni caso, che ci sia una fase transitiva di sperimentazione per capire se, ad esempio, nel fissare l’aliquota, oltre alla superficie, vada contemplato il criterio del nucleo familiare. Occorre approfondire tecnicamente, inoltre, i parametri per definire la base imponibile». Come è ormai chiaro, il professore è decisamente favorevole a questo tipo di imposizione. «E’ applicata pressoché ovunque, e ovunque rappresenta la principale fonte di finanziamento della spesa locale». Resta da capire se, a fronte dell’aggravio impositivo che si è prodotto quest’anno, si tratti di una tassa sostenibile. Tanto più che, in gran parte de comuni d’Italia, i servizi sono ampiamente inadeguati.
«La Tares dovrebbe rappresentare, idealmente, una tassa, e non un’imposta; dovrebbe essere applicata, quindi, a fronte di un servizio e corrispondere, almeno secondo la sua costruzione teorica, al livello del servizio erogato». Quanto meno, sono evidenti, i benefici per le imprese. «Servirà, a molte aziende, per portare al pareggio di bilancio. Ci sono esternalità che non sono copribili con le tariffe». I cittadini, dal canto loro, un modo di difendersi, ce l’hanno: «le tasse dovrebbero servire per far prendere consapevolezza ai contribuenti del costo di un determinato servizio. Se i costi sono aumentati dalle inefficienze gestionale, protestino. E votino in maniera diversa. Non c’è altra soluzione in democrazia».
(Paolo Nessi)