Tra le ripercussioni dell’attentato ad “In Amenas”, in Algeria, c’è la riduzione dell’esportazioni di gas naturale in Italia. Un bel problema, se si considera che il Paese, per noi, rappresenta il primo produttore, dal quale importiamo ben il 32,6% di tutto il gas acquistato dall’estero. Attualmente, il calo ammonta al 17%. Non è una tragedia. Abbiamo scorte ingenti. Cosa potrebbe accadere, tuttavia, se i terroristi decidessero di radere definitivamente al suolo il sito, e se quel calo del 17% diventasse, in questo modo, strutturale? Lo abbiamo chiesto a Silvio Bosetti, direttore generale della Fondazione Energy Lab.
Cosa accadrà nell’immediato futuro?
Per il momento, non ci sono grandi allarmismi perché abbiamo una capacità di diversificazione rispetto alla dipendenza dall’estero. Oltre che dal nord Africa, infatti, ci approvvigioniamo dai paesi dell’Est, specialmente dalla Russia, dal Nord Europa, e abbiamo anche una produzione italiana. Nell’ipotesi di periodi straordinari e imprevisti abbiamo serbatoi di stoccaggio di dimensioni significative. Il nostro Paese, quindi, è in grado di far fronte alle emergenze.
Cosa comporterebbe il calo del 17% se diventasse strutturale?
Dovremmo comunque essere in grado di affrontare una situazione del genere. Resta il fatto che il nostro Paese è connotato da una serie di criticità che lo rendono vulnerabile. Specie in una prospettiva di medio-lungo termine.
Quali criticità?
Sul fronte energetico, dipendiamo quasi in misura assoluta dal gas e dall’estero.
Questo da cosa dipende?
Dalla sovrapposizione di diversi fattori. Negli ultimi 40 anni, anzitutto, l’Italia ha deciso di incrementare l’utilizzo di gas naturale, quando tutti gli altri Paesi europei hanno individuato altre fonti energetiche. Addirittura, siamo diventati il primo Paese europeo per consumi di gas per il riscaldamento, l’energia elettrica e il funzionamento della fabbriche. Disponiamo, inoltre, di poche risorse naturali e le poche che abbiamo non le utilizziamo pienamente. Potremmo raddoppiare l’utilizzo di gas interno presente, ad esempio, nell’Adriatico o in Basilicata, se non esistessero una serie di vincoli ambientali che lo impediscono.
Negli altri paesi, quali sono le principali fonti energetiche?
Ci sono casi come la Francia, dove il fabbisogno energetico è garantito al 75% dal nucleare, o come la Germania, dove al 40% lo garantisce il carbone.
Si tornerà mai, in Italia, a parlare di nucleare?
Dopo il referendum e il disastro di Fukushima, credo che sull’argomento sia stata messa una pietra sopra. Se così non fosse, in ogni caso, se ne riparlerà tra decenni. Basti pensare che dallo smantellamento alle fine degli anni ’80 delle 4 centrali di cui disponevamo, alla riapertura del dossier, passarono più di vent’anni.
Crede che le fonti rinnovabili siano un settore sul quale puntare?
Indubbiamente, ormai rappresentano una tendenza irreversibile. Ciò che conta, tuttavia, è capire su quale tipo di tecnologia puntare e che genere di incentivi concedere. Il nostro Paese, purtroppo, ha scelto, quasi in via esclusiva, il fotovoltaico, dando sussidi di entità straordinaria, incommensurabili al resto del mondo. Oltretutto acquistando pannelli prodotti all’estero. Si potrebbe, invece, pensare ad altre fonti, quali l’idroelettrico o l’eolico in mare, destinando i sussidi in maniera più equilibrata.
(Paolo Nessi)