“for the discovery and
development of the green
fluorescent protein, GFP”
Il premio Nobel per la Chimica 2008, come succede ormai da un certo tempo, è stato assegnato per una scoperta ottenuta attraverso metodi che non possono essere classificati come chimici in senso tradizionale e che ha portato a importanti applicazioni in biologia. Il premio è stato assegnato a Osamo Shimomura, Martin Chalfie e Roger Y. Tsien con la motivazione: «for the discovery and developmente of the green fluorescent protein, GFP».
Alla metà degli anni cinquanta Osamu Shimomura (1) [Immagine a sinistra], un biologo marino, era riuscito a isolare la sostanza responsabile della luminescenza di un crostaceo e per questo era andato a Princeton per studiare la luminescenza della medusa Aequorea victoria. Shimomura isolò una sostanza la cui chemiluminescenza, attivata dagli ioni calcio nell’acqua marina, era blu, mentre la luminescenza della medusa era verdastra. Alla fine egli riuscì a isolare una proteina che, quando era irradiata da luce blu o ultravioletta, emetteva una fluorescenza verdastra: era così spiegato il meccanismo della luminescenza della medusa: la chemiluminescenza della prima sostanza veniva assorbita dalla proteina che per fluorescenza emetteva la luce verde. La sostanza è stata chiamata GFP (green fluorescent protein).
La chemiluminescenza, una reazione chimica che porta all’emissione di luce, non è di per sé un fatto raro negli organismi viventi: basta pensare alla lucciole, alcuni vermi, eccetera. Ma in questo caso il fatto notevole era che in una cellula si aveva una proteina che poteva emettere luce senza l’apporto di particolari sostanze ma per il semplice irradiamento con luce ultravioletta.
Questo è il fatto che, verso la fine degli anni Ottanta, ha fatto venire un’idea a Martin Chalfie (2) [Immagine a destra], che lavorava all’Università Columbia: fare in modo che questa proteina potesse essere sintetizzata in un organismo, diverso dalla medusa, e per di più che venisse associata alla sintesi di un’altra proteina in modo da rimanere legata ad essa. In questo modo la fluorescenza della GFP avrebbe potuto permettere di localizzare la proteina così modificata all’interno dell’organismo studiato.
Per far questo Chalfie ha dovuto, dapprima, individuare il gene della GFP e quindi inserire questo gene in particolari posizioni del DNA dell’organismo ospite; infatti, inserendo il gene della GFP tra il gene della proteina che si vuole associare alla fluorescenza e il tratto di DNA preposto ad attivare la replica di quest’ultima (promoter), quando viene sintetizzata la proteina presa in esame anche la GFP viene sintetizzata. Dapprima l’esperimento fu condotto sul batterio Escherichia coli, ma in seguito fu possibile ripetere il processo sul verme Caenorhabditis elegans trovando, quindi, che il procedimento era assolutamente generale e poteva essere applicato sia a procarioti che a eucarioti.
A questo punto Roger Tsien (3) [Immagine a sinistra:], ha lavorato a estendere il numero di colori in cui la GFP emette. Per prima cosa stabilì la sequenza dei 238 amminoacidi che compongono la proteina, quindi riuscì a spiegare come la reazione tra tre residui porti alla creazione del centro attivo responsabile della fluorescenza richiedendo solo la presenza di ossigeno; questo spiega come la proteina diventi spontaneamente fluorescente in tutte le situazioni: l’ossigeno è generalmente presente in tutte le cellule.
In seguito Tsien cominciò a variare la sequenza di amminoacidi fino a riuscire a ottenere delle varianti in grado di assorbire ed emettere in diverse zone dello spettro visibile. Una delle applicazioni più spettacolari è stata la creazione di topi geneticamente modificati in modo che differenti cellule nervose del cervello emettano colori diversi, permettendo di mappare come tali cellule siano interconnesse tra loro.
Oltre alle applicazioni a scopo di ricerca le GFP hanno avuto anche applicazioni tecnologiche, portando alla realizzazione di biosensori costituiti da batteri geneticamente modificati, in modo da diventare fluorescenti in presenza di elementi chimici dannosi come arsenico, cadmio o zinco e persino in presenza di esplosivi come il trinitrotoluene. La struttura geometrica [Immagine a destra] spiega le singolari proprietà della proteina.
Il gruppo attivo viene a trovarsi al centro di una struttura, stabilizzata da una serie di legami di idrogeno, data da ß-sheet che formano come le doghe di un barile.
Questo fa sì che il centro fluoroforo sia particolarmente protetto sia dalla penetrazione di leganti che lo possano disattivare che dall’azione distruttiva della struttura dovuta al calore o ad altri agenti denaturanti; questo spiega come la fluorescenza si possa conservare in situazioni molto diverse tra loro.
Inoltre, un’ulteriore conseguenza della struttura terziaria è che la proteina non avvolta non è fluorescente, mentre nella forma naturale i tre amminoacidi Ser65-Tyr66-Gly67 sono forzati in una torsione che favorisce una ciclizzazione e la successiva ossidazione che porta alla formazione del centro fluoroforo.
Emanuele Ortoleva
(Professore Associato di Chimica Fisica presso l’Università degli Studi di Milano)
Note
- Osamu Shimomura (1928-…), Marine Biological Laboratory (MBL), Woods Hole, MA, USA; Boston University Medical School, Massachusetts, MA, USA
- Martin Chalfie (1947-…), Columbia University, New York, NY, USA
- Roger Tsien (1952-…). University of California,San Diego, CA, USA; Howard Hughes Medical Institute
© Pubblicato sul n° 34 di Emmeciquadro