Con una breve panoramica storica, centrata essenzialmente su quanto accaduto negli Stati Uniti (ma anche in Italia e in Europa, pur con qualche anno di ritardo, le vicende non sono andate molto diversamente) si ripercorre l’evoluzione dei metodi e delle tecnologie per il riciclaggio degli autoveicoli, per poi dare qualche informazione sulla normativa attualmente in vigore per il loro smaltimento. Gli argomenti trattati possono essere interessanti, anche didatticamente, come esempio di evoluzione positiva di una tecnologia e in ogni caso aiutano a rispondere alla domanda che forse qualcuno dei lettori più curiosi si sarà fatto, cambiando vettura: che fine fanno le nostre automobili?
Le decine di milioni di automobili che vengono prodotte ogni anno nel mondo vanno in gran parte a sostituire, specie nei paesi più sviluppati, un numero equivalente di autovetture, che, quando giungono alla fine della loro vita utile, devono essere smaltite in maniera adeguata, da un lato per recuperare un ingente quantitativo di materiali di notevole pregio e valore economico, dall’altro per non creare un problema ambientale di grandi proporzioni(1).
Se questi due corni del problema sono oggi piuttosto chiari e la tecnologia del recupero è sufficientemente consolidata, costituendo uno degli esempi più interessanti di come le società industriali sono passate da un periodo di sprechi e di uso «anarchico» e irrazionale delle risorse, a una più attenta gestione dei materiali, dei prodotti, e di conseguenza anche dell’ambiente, in quella che è la pur breve storia (poco più di cento anni) di un’industria che è sinonimo di produzione di massa, le cose non sono andate molto linearmente. In particolare, se il quadro normativo e delle regole sul riciclaggio degli autoveicoli è attualmente, almeno in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone, notevolmente complesso ed evoluto, in passato i cimiteri di automobili o le auto abbandonate per strada non a caso hanno costituito uno dei simboli dello squallore del paesaggio industriale e del degrado delle periferie urbane.
Dal cortile dello sfasciacarrozze agli shredder
L’industria automobilistica è da sempre fortemente legata con quella siderurgica. In quest’ultima già dagli inizi del Novecento divenne importante la componente di produzione basata su metallo riciclato, ottenuto dalla raccolta sistematica di rottami ferrosi. A partire dagli anni venti del XX secolo, almeno negli USA, dove una prima motorizzazione di massa era già avvenuta, le automobili dismesse divennero una delle fonti principali di questi rottami.
Dopo una stasi negli anni trenta e nel periodo della Seconda Guerra Mondiale (quando fu prodotta una tale quantità di rottami di edifici, navi, eccetera, a causa delle distruzioni belliche, da rendere le automobili meno interessanti), nel secondo dopoguerra il grande sviluppo dell’industria automobilistica fece scoppiare negli Stati Uniti il problema dello smaltimento delle auto usate, anche a causa dell’abitudine di cambiar macchina ogni due anni. Si crearono così montagne di auto usate che l’industria automobilistica era in qualche modo interessata a riutilizzare, ma che per la gran parte tornavano in circolo in maniera poco sistematica, solo grazie all’apporto di migliaia di piccoli «sfasciacarrozze».
Così inizialmente il recupero era molto lento, pericoloso e implicava molto lavoro manuale, fatto con attrezzature semplici e poco costose (in gran parte attrezzi manuali, più fiamme ossidriche e cesoie pneumatiche) per separare le parti in acciaio dal resto. Si instaurò anche la pessima pratica di bruciare le carcasse all’aria aperta, in modo da liberarle da combustibili, oli, sedili, pneumatici, eccetera.
Fra gli anni cinquanta e sessanta cominciarono ad entrare in uso tecniche più complesse, come la «compattazione» nella quale un intero veicolo veniva ridotto a un piccolo parallelepipedo, tramite potenti presse idrauliche (ricordate la famosa scena del film “Agente 007 Missione Goldfinger?).
Ma esisteva comunque un problema tecnico-economico che lasciava sul terreno molte auto; esse sono un sistema complesso fatto di vari metalli, gomma, pelle, stoffa, vernice, e sempre di più, col passare degli anni, plastica, che dovevano essere separati dall’acciaio a costo di una gran quantità di lavoro, in gran parte manuale, che rendeva poco economico il recupero.
Nel 1951 c’erano quindi più di 25.000 cimiteri di automobili negli USA, in genere collocati ai margini degli aggregati urbani e in vicinanza delle autostrade, che divennero ben visibili quando la popolazione cominciò a spostarsi per abitare fuori città. La gente cominciò a lamentarsi, più che altro della loro bruttezza finché nel 1965 il Presidente Lyndon Johnson firmò il Highway Beautification Act che imponeva la rimozione dei cimiteri o la loro protezione visiva. Ma il problema dell’accumulo, dell’abbandono e del vandalismo sulle macchine abbandonate cresceva.
Le piccole ditte familiari di riciclaggio, spesso nate fra il 1880 e la prima guerra mondiale non erano per altro in grado di attrezzarsi con tecnologie più efficienti e in generale ricavavano più profitto dalla vendita dei pezzi di ricambio che dallo smembramento, per cui le carrozzerie venivano lasciate ad arrugginire in attesa di compratori di parti, piuttosto che essere distrutte. Anche la compattazione con delle grosse presse idrauliche, per quanto apparentemente più veloce e meno labour intensive se veniva effettuata senza separare la parti produceva rottami di seconda categoria, pieni di impurezze, che le acciaierie rifiutavano, specie quelle che usavano i forni ad arco elettrico, o pagavano molto poco.
Era necessario trovare un sistema diverso per smembrare rapidamente le automobili, separarne le varie componenti e recuperare un rottame ferroso di prima qualità, il più possibile privo di impurezze. Questa tecnologia fu messa punto nel corso degli anni cinquanta da due aziende texane, la PROLER di Houston e la NEWELL di San Antonio, che realizzarono i primi shredder (frantumatori) e i sistemi al contorno di queste macchine che permettono di separare, in gran parte meccanicamente, e quindi con un modesto apporto di lavoro manuale, i vari materiali che compongono un’automobile.
In sostanza, a differenza del sistema basato sulle presse idrauliche, con il frantumatore la vettura (dopo che sono state rimosse alcune parti facilmente asportabili, quali pneumatici, sedili, serbatoio e radiatori) viene ridotta in pezzetti di pochi centimetri, e il materiale prodotto viene quindi selezionato mediante elettromagneti e altri sistemi (potenti ventilatori, setacci, filtri, eccetera) in modo da separare i materiali ferrosi da tutto il resto. In tal modo oltre a recuperare un rottame ferroso di ottima qualità, dal quale sono rimosse tutte le componenti leggere (metalli non ferrosi, vetro rivestimenti, plastiche, eccetera), possono a loro volta venire recuperati altri materiali di pregio. Benché gli impianti PROLER e NEWELL avessero taglie diverse il loro modo di funzionare era molto simile; il loro vantaggio principale era di ridurre di tre-quattro volte il personale necessario e di aumentare di dieci volte la produttività.
Entrambi i costruttori sfruttarono inizialmente gli shredder per il loro proprio business, ma iniziarono presto a venderli anche ad altri, mantenendo due mercati paralleli. Verso la fine degli anni settanta altri costruttori si aggiunsero al business dei frantumatori per rottami metallici, specie fra quelli che già producevano mulini a martelli per altre industrie. Si sperimentarono varie tecniche di trattamento a secco, umido, bagnato, differenti velocità di lavoro, diversi tipi di motori elettrici a corrente continua o alternata, diversi metodi di smaltimento dei residui non riciclabili (incenerimento, ricopertura di discariche di rifiuti urbani, eccetera) e altro.
Nel corso degli anni settanta crebbe l’entusiasmo dei politici e dell’opinione pubblica per questi impianti, come la soluzione in grado di far sparire tutti i cimiteri di automobili disseminati negli USA. Così verso la fine del decennio negli USA erano ormai in funzione diverse centinaia di shredder e agli inizi degli anni ottanta i cumuli di auto usate che incoronavano le città erano quasi scomparsi.
La taglia e il costo degli impianti NEWELL rimasero, anche negli anni a seguire, nettamente più bassi di quelli degli impianti PROLER e ne permisero una buona diffusione fra le aziende di riciclaggio di piccole dimensioni. In ogni caso il costo degli shredder era elevato e questo favorì la concentrazione delle aziende di riciclaggio.
Ovviamente ciò non a tutti piacque, e al generale entusiasmo cominciarono ad aggiungersi voci di dissenso, specie da parte di chi si trovava vicino agli impianti (rumorosi, polverosi e spesso soggetti a esplosioni). In effetti ne vennero costruiti anche di molto grandi, in grado di riciclare da 200.000 a 350.000 automobili all’anno, come quello di Schiabo Neu, a Jersey City o di Long Beach in California; tanto grandi che cominciarono a produrre rottami addirittura per l’esportazione verso il Giappone, l’Italia e il Sud America.
Come è fatto uno Shredder Negli impianti moderni le carcasse di automobili arrivano allo shredder private di apparati di scarico e catalizzatori (riciclati a parte per il loro pregiato contenuto di metalli pregiati), pneumatici e cerchioni, carburanti, fluidi frigorigeni (CFC) del condizionatore, oli, batterie al piombo, airbag e altri parti eventualmente recuperate come pezzi di ricambio. |
Nasce il problema ecologico
Un po’ alla volta emerse anche il problema di come venivano condotte le operazioni di riciclaggio in quanto inizialmente per risparmiare tempo, le vetture venivano frantumate tal quali e inevitabilmente nel corso del processo di triturazione venivano dispersi oli, carburanti, fluidi frigorigeni, metalli pesanti, eccetera; lo stesso residuo finale non riciclabile che usciva dall’impianto, denominato car fluff, era contaminato da varie sostanze potenzialmente tossiche, e cominciò a creare preoccupazioni per il suo smaltimento in discarica o con altre forme di smaltimento finale (negli USA fino al 1984 questo residuo non veniva considerato inquinante e veniva utilizzato come inerte per il ricoprimento delle discariche di rifiuti solidi urbani).
Bisogna inoltre tenere presente che questi residui hanno avuto una loro evoluzione: infatti tra il 1970 e il 2000 la struttura delle auto ha subito una notevole evoluzione, con l’aggiunta di molti circuiti elettronici, airbag, condizionatori (con i loro CFC), eccetera; con un notevole incremento dell’uso di materiali plastici di molti tipi diversi, comprese le schiume di poliuretano e anche policlorobifenili (PCB) essenzialmente nei condensatori e nelle bobine elettriche, e metalli pesanti (cadmio, molibdeno).
Già verso il 1975 erano comparse delle stime che da ogni auto potesse provenire almeno una ventina di kilogrammi di materiali plastici polverizzati ed erano giunte agli impianti le prime denunce per inquinamento da polveri.
Così l’attenzione verso questo tipo di residui è andata crescendo nel tempo, non solo per il grande aumento della loro quantità (già negli anni novanta il processo di riciclaggio delle auto produceva ogni anno negli USA tre milioni di tonnellate di residui non riciclabili), ma anche per la crescita della coscienza ecologica e per l’istituzione di organismi pubblici preposti alla salvaguardia dell’ambiente, che gradualmente ricevettero dallo Stato l’autorità di verificare l’eventuale rilascio di sostanze nocive nell’ambiente da parte di tutti i cicli industriali, compreso quello del riciclo delle automobili con gli shredder.
In effetti questi impianti non erano stati progettati per affrontare tutti i problemi ambientali che questo processo implicava. Anzi, se pur avevano ridotto l’impatto visivo dei cumuli di automobili, per certi versi l’introduzione degli shredder aveva esasperato il problema ambientale da esse rappresentato (tendenzialmente lasciate ad arrugginire all’aperto le carcasse di auto erano abbastanza inerti).
Cominciarono le azioni legali contro le aziende di riciclaggio; la prima nel 1986, della città di Anaheim in California, contro la Steel Salvage Company. Durante gli anni novanta ci furono decine di queste azioni legali, dopo che l’Enviromental Protection Agency (EPA), l’agenzia americana per la protezione dell’ambiente, ebbe designato come superfund site, cioè come luoghi contaminati, le aree in cui sorgevano gli impianti di riciclaggio.
Le aziende di riciclaggio furono costrette in molti casi ad adeguare i loro impianti, in modo che i residui non riciclabili e pericolosi non fossero dispersi, nell’aria, nel suolo o nei corsi d’acqua, ma trattenuti ed in seguiti smaltiti in modo controllato. Furono anche adeguate le modalità di preparazione alla frantumazione, per esempio rimuovendo prima le batterie, svuotando i condizionatori, eccetera. E quando cominciarono a esserci troppe limitazioni e regolamenti, qualcuno pensò naturalmente di aggirare l’ostacolo spedendo le carcasse d’auto da riciclare in paesi meno attenti all’ambiente.
Ma in sostanza il mondo anarchico e un po’ naif degli sfasciacarrozze era ormai definitivamente tramontato e il campo era ormai dominato dai complessi impianti basati sugli shredder, gli unici in grado di reggere economicamente l’impatto dei regolamenti ambientali che nel frattempo si erano andati affermando.
I Regolamenti
I regolamenti che disciplinano lo smaltimento e il riciclaggio delle automobili giunte al termine del loro ciclo di vita, sono un po’ lo specchio dell’evoluzione che la tecnologia del riciclaggio ha subito negli anni.
Il decreto legislativo N. 22/1997 (Decreto Ronchi) Nel nostro paese il decreto legislativo N. 22/1997 (Decreto Ronchi), che recepiva le direttive n. 91/156 CEE sui rifiuti, n 91/689 CEE sui rifiuti pericolosi e n. 94/62/CEE sugli imballaggi, all’art. 46 introdusse le prime importanti novità sulla demolizione e rottamazione dei veicoli, fatti rientrare nella categoria dei rifiuti speciali, incidendo anche sul commercio delle loro parti di ricambio.
La Direttiva Europea 2000/53/EC Qualche anno più tardi, per la precisione il 18 settembre 2000, fu emessa la Direttiva Europea 2000/53/EC, che è divenuta lo strumento legislativo impegnativo per tutti i paesi della Comunità, definendo una serie di principi e di misure che hanno lo scopo, in prima istanza, di «prevenire la produzione di rifiuti provenienti dai veicoli» e in secondo luogo di favorire il riuso, il riciclaggio e altre forme di recupero dei veicoli e dei loro componenti allo scopo di ridurre la dispersione di rifiuti e di migliorare le prestazioni ambientali. |
Epilogo
Nel settembre del 1994 l’American Society of Mechanical Engineers (ASME), la prestigiosa Associazione degli Ingegneri Meccanici Americani assegnò ad Alton Newell un importante «premio alla carriera» per la sua lunga attività e per le sue invenzioni nel campo del riciclaggio delle automobili.
Come abbiamo accennato, si deve in effetti in gran parte a Newell la diffusione degli shredder, le prime macchine in grado di ridurre a pezzettini un’intera autovettura. L’ASME designò come «insediamento meccanico storico» l’area nei dintorni di San Antonio dove era stato installato e dove ancora si trovava il primo shredder costruito da Newell negli anni cinquanta.
Nelle motivazioni di questo riconoscimento l’ASME sottolineava che gli shredder «avevano rivoluzionato un’intera industria, incoraggiato il riciclo delle automobili e ridotto uno dei principali problemi di inquinamento rimuovendo metalli dalle discariche […] risparmiando energia e diminuendo l’inquinamento […].cosicché i frantumatori hanno prodotto benefici che vanno ben al di là di quelli garantiti all’industria dei rottami».
Ironia della sorte, nello stesso periodo in cui riceveva questo riconoscimento Newell e l’azienda da lui fondata erano sotto indagine da parte dell’EPA per ripetute infrazioni alle leggi americane nello smaltimento dei rifiuti generati dai frantumatori. Ciò può sembrare paradossale, ma in realtà la storia della tecnologia è piena di casi simili, nei quali la soluzione di un problema tecnico genera altri problemi, non previsti o sottovalutati, che a loro volta stimolano altre invenzioni.
Lo sviluppo tecnologico è spesso disordinato e complesso, ricco di sorprese e di conseguenze non calcolate, e il «progresso», se mai esiste, non è in nessun modo lineare, garantito e senza conseguenze negative. Inoltre accade spesso che di una novità tecnologica si vedano inizialmente solo i vantaggi, e si scoprano soltanto a posteriori gli inconvenienti.
Per esempio, la stessa automobile dovette sembrare un enorme progresso, non solo per la velocità, ma anche dal punto di vista ambientale, agli abitanti delle metropoli di inizio Novecento che vivevano in città già congestionate dal traffico e piene di mezzi privati e pubblici trainati da cavalli (nella sola New York erano in circolazione circa 120.000 cavalli): in fondo le automobili emettevano solo qualche scoppiettio e qualche «puzzetta» di fumo, invece delle tonnellate di sterco prodotte giornalmente dai cavalli!
In sostanza uno sguardo anche fugace alla storia dell’industria moderna, così come abbiamo fatto per il caso particolare del riciclaggio delle automobili, mostra che nella maggior parte dei casi gli effetti, negativi, o a volte positivi, di una tecnologia sull’ambiente diventano chiari solo dopo che essa si è affermata, e che leggi e regolamenti vengono fatte quasi sempre a posteriori.
Ciò può sembrare estremamente irrazionale e insoddisfacente, ma è probabilmente intrinseco ai limiti della natura umana. Certamente non è disdicevole che vengano fatti sempre più sforzi per superare questi limiti, ma bisogna da un lato valutare accuratamente vantaggi e svantaggi di voler regolare e prevedere tutto a priori, dall’altro avere fiducia nella buona volontà e nella possibilità di correzione degli errori, quando essi vengono pienamente compresi. In questo modo anche gli aspetti apparentemente più negativi delle tecnologie possono avere la possibilità di «riscattarsi» e di trasformarsi persino in nuove occasioni economiche, come venne efficacemente sottolineato in un convegno tenuto dall’Automobile Club d’Italia una decina di anni fa: «Il riciclaggio costituisce un nuovo anello del sistema economico, una nuova attività produttiva, sostitutiva sia delle attività di produzione primaria che delle attività di smaltimento.
L’industria del riciclaggio si configura come una industria aggiuntiva, in parte già ben integrata nella filiera tradizionale di produzione. Il ruolo del sistema del recupero è cresciuto tanto da assumere una connotazione industriale, sia per l’economia nazionale (vista la scarsità di materie prime), sia per la salvaguardia delle risorse ambientali non rinnovabili».
In sostanza ci sembra che la tensione fra industria ed ecologismo (si veda anche il recente caso dell‘ILVA di Taranto) deve essere accuratamente calibrata e mediata da quell’arte del «compromesso» che è la «politica» in quanto l’eccesso di regolamenti rischia di portare a una paralisi dello sviluppo e della produzione di nuova ricchezza che poi l’unica in grado di garantire che regole sempre più strette possano essere applicate.
Il processo non può che essere graduale e non si può avere tutto subito, pena il rischio di ritornare, alla lunga a condizioni peggiori delle precedenti. Anche in questo caso il sogno di una società perfetta verso la quale l’ecologismo esasperato, orfano di precedenti ideologie condannate dalla storia, sembra volerci portare, non fa altro che produrre mostri.
Gianluca Lapini
(Ingegnere, ex ricercatore presso CISE e CESI, Milano)
- Si stima che nel mondo ogni anno giungano al termine della loro vita utile circa 25 milioni di veicoli, dei quali circa 12 milioni nei soli Stati Uniti e circa 9 milioni in Europa. Dei veicoli europei una discreta percentuale (15-20%) viene esportato come veicolo di seconda mano verso mercati extraeuropei (Africa , Medio Oriente, ex-URSS), ed il resto viene riciclato, recuperando in media il 75% in peso. In Italia con un parco di circa 40 milioni di veicoli circolanti quelli avviati alla rottamazione sono in media un paio di milioni all’anno; da questi si ricavano circa 1,7 milioni di tonnellate di materiali vari, in prevalenza rottami ferrosi.
- Nel nostro paese i dettati della direttiva in oggetto sono stati convertiti in legge con il Decreto Legislativo n. 209 del 24/6/2003, successivamente modifica dal DL n. 149 del 24/06/2006, nei quali si specificano fra l’altro i requisiti dei Centri di Raccolta dei veicoli fuori uso.
- Da notare che alcune di queste componenti hanno delle modalità di smaltimento istituzionalizzate, valide anche per i veicoli in uso; per esempio le batterie vengono conferite al COBAT (Consorzio obbligatorio batterie) e gli oli al “Consorzio obbligatorio degli oli esausti”.
- Peraltro affinché il ritiro della vettura da rottamare sia gratuito, devono essere rispettati i seguenti requisiti: – l’auto deve essere consegnata presso un impianto indicato dalla casa costruttrice; – deve essere completa, cioè dotata degli elementi essenziali quali motore, trasmissione, carrozzeria, centraline elettroniche e catalizzatore; – deve essere esente da rifiuti aggiunti (ad esempio ulteriori pneumatici, eccetera).
Indicazioni bibliografiche
- AA.VV., Tecnica dell’automobile, San Marco, Bergamo 2005.
- B.J. Jody et al., End-of-Life Vehicle Recycling: State of the Art of resource Recovery from Shredder Residue, Argonne National Laboratory, Energy System Division, Report ANL/ESD/10-8, Settembre 2010.
- C. MCShane, J. Tarr, The Horse in the City: Living Machines in the Nineteenth Century, Baltimore 2007
- R. Palfi, R. Poxhofer, M. Kriegel, S. Alber, Car Shredding Manual, Report TST3-CT-2003-506075, SEES (Sustainable Electrical&Electronic System for the Automotive Sector), Marzo 2006.
- C. Schirosa (a cura di ), La rottamazione dei veicoli: il ricupero e il riciclo dei materiali, Atti del Convegno Rottamazione dei veicoli: nuove norme e vecchi problemi, ACI Roma, 4 dicembre 2002.
- C. A. Zimrig, The Complex Environmental Legacy of the Automobile Shredder, Technology and Culture, vol. 52, n. 3 July 2011, pp.523-547.
© Pubblicato sul n° 46 di Emmeciquadro