L’autore mostra come nei neuroni e nelle loro connessioni risiede la base fisica delle nostre percezioni e della nostra memoria.
Ma cosa può dire la neurofisiologia sul problema del rapporto tra corpo e mente, tra cervello e sorgere della coscienza?
È possibile definire l’identità dell’uomo facendo riferimento solo agli studi sul cervello, seppure condotti a livello estremamente avanzato?
L’autore lo nega analizzando i limiti delle posizioni riduzioniste nei riguardi del mistero dell’io.
Io faccio principalmente il medico, visito i malati, insegno neurologia e ho un background di neurobiologo perché ho avuto la fortuna di lavorare in questo campo negli Stati Uniti per quattro anni.
L’anno scorso sono stato coinvolto da un gruppo di fisici nell’allestimento di una mostra sul «vedere»: mi sono occupato degli aspetti neurofisiologici della percezione visiva e, naturalmente, mi sono scontrato con il tema della coscienza. Il mio professore, che adesso è in pensione, da otto anni sta scrivendo un libro sulla coscienza: ne ho discusso molto con lui perché è un tema appassionante, ed è per questo che ho accettato questo invito.
Il mio contributo sarà peraltro provocatorio e mi permetterò di dire il mio pensiero fino in fondo, non limitandomi soltanto alle neuroscienze e reagendo anche alla recente lettura del saggio Storia e Destino dello storico Aldo Schiavone.
Vorrei iniziare con una domanda che faccio spesso durante le mie lezioni, alla quale gli studenti raramente rispondono correttamente: come mai la vita media nei Paesi sottosviluppati è di quarant’anni?
Vuol dire che la maggior parte della gente nei Paesi sottosviluppati muore a quarant’anni?
Evidentemente no, anche se siamo portati a pensare così. Inoltre, per una implicazione psicologica, pensiamo che nei Paesi sviluppati la vita sia stata portata in pochi anni da quaranta a oltre ottanta anni. Il motivo vero per cui la vita media nei Paesi sottosviluppati è quarant’anni è che la mortalità infantile è elevata: questo quindi è il fattore principale che determina la vita media di una popolazione.
Negli Stati Uniti la vita media non è molto alta, perché la mortalità infantile resta abbastanza elevata, non essendoci un sistema sanitario nazionale. Sono dati che dobbiamo analizzare bene, per non arrivare a conclusioni sbagliate.
L’idea che la vita umana sia sui settanta – ottanta anni si ritrova nelle più diverse culture: si pensi al Salmo 89 (su cui si discute se sia stato scritto all’epoca di Davide o, molto più probabilmente, all’epoca dell’esilio) che dice: «Gli anni della vita sono settanta, ottanta per i più robusti, passano presto e noi ci dileguiamo».
Perché l’Uomo muore? Il problema è stato da sempre affrontato dalla filosofia ma qui lo pongo in termini medico-biologici. Anzitutto il nascere e il morire è la caratteristica di tutti gli esseri viventi; tutti gli organismi complessi obbediscono a questa legge: nascono e muoiono.
Ogni specie, tra l’altro, ha un suo life span discretamente fisso; le malattie intervengono eventualmente ad accorciarlo.
I neurobiologi lo sanno molto bene perché, se prendo i topi per studiarne l’invecchiamento, devo tenerli in vita per il loro life span che è di due anni; se prendo i criceti è solo di un anno; gli elefanti durano in vita settanta-cento anni.
Ogni specie ha inscritta in sé una determinata durata di vita che non dipende semplicisticamente soltanto dai geni o dal fenomeno che permette la moltiplicazione delle cellule, ma dipende dalla complessità di quell’organismo.
L’uomo, in generale, muore per malattia o per lesioni.
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Mauro Ceroni
(Professore di Neurologia presso l’Università degli Studi di Pavia)
Il presente contributo è tratto da una lezione tenuta al corso di formazione per docenti “Natura e persona nell’epoca delle tecnoscienze” organizzato da Diesse Lombardia in collaborazione con l’Associazione Euresis e Prologos, svoltosi presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nei mesi di marzo e aprile 2008.
© Pubblicato sul n° 34 di Emmeciquadro