“for the discovery that
mature cells can be
reprogrammed to become
pluripotent”
Il premio Nobel 2012 per la Medicina aggiudicato all’inglese John Gurdon e al giapponese Shinya Yamanaka ha suscitato grandi applausi da parte di tutti. Perfino di coloro che non hanno ancora capito bene cosa hanno scoperto.
Il merito di questi due ricercatori è notevole e le scoperte che hanno meritato loro il Nobel sono solo l’inizio di una serie di passi che la biologia potrà fare in futuro. Ogni scoperta, insieme alla spiegazione di aspetti interessanti, pone anche nuovi interrogativi alcuni dei quali conducono a riflessioni importanti sulla natura umana.
Prima di affrontare sinteticamente alcune di queste, vorrei rispondere a due domande che mi sono state rivolte: quanto c’entra la medicina con questo premio? perché a due scienziati di così diversa età?
Quanto c’entra la medicina con questo premio?
Il Nobel prevede un premio per la fisiologia o la medicina. Poiché non esiste un premio per la biologia o la genetica o la biochimica, accade spesso che quando una di queste discipline sia meritevole del premio questo viene di fatto dirottato sulla medicina. Sarebbe lungo analizzare criticamente cosa è successo dal 1901, poiché non sempre la portata reale di una grande scoperta in biologia può avere un immediato effetto sulla pratica medica (diagnostica o terapeutica) e infatti per molti Nobel dati alla medicina non si è successivamente vista una adeguata applicazione alla cura medica.
È successo spesso anche il contrario, che Nobel dati per particolari interventi medici osannati come scoperte eccezionali siano successivamente risultati assai limitati se non addirittura inefficaci o dannosi. Un esempio fra tutti il Nobel dato per il ruolo terapeutico della lobotomia nelle psicosi. In realtà molti altri Nobel hanno realmente rivoluzionato la pratica medica come la scoperta dei gruppi sanguigni, degli antibiotici, degli anticorpi e delle vaccinazioni o di agenti infettivi non noti.
Almeno in parte, anche questo attuale premio Nobel soffre delle contraddizioni descritte, perché accanto al suo notevole valore conoscitivo l’impatto pratico sulla medicina potrà affermarsi, ma richiederà un periodo più o meno lungo.
Lo stesso Yamanaka, in un’intervista a Reuter subito dopo la notizia del premio (1), si è premurato di dichiarare la necessità di molta cautela nell’enfatizzare il ruolo clinico della scoperta. Egli ha anche messo in guardia i pazienti spiegando che queste ricerche scientifiche dovranno essere applicate prima su animali per dimostrare che funzionano e poi in sperimentazioni cliniche molto controllate per essere sicuri che non provochino danni e siano efficaci.
La sua prudenza è anche giustamente dettata dall’esasperato «turismo medico» verso cliniche dove ciarlatani offrono terapie miracolose a base di cellule staminali assolutamente non controllate e anche pericolose.
Perché il Nobel a due scienziati di così diversa età?
Il lavoro scientifico fondamentale che ha fruttato il Nobel a Gurdon è di cinquant’anni fa (1) quando egli dimostrò che una cellula uovo di rana nella quale il nucleo era stato sostituito con quello di una cellula intestinale fu in grado di maturare e sviluppare un normale girino.
Fu questa la prima evidenza che il DNA di una cellula matura è in grado di esprimere le informazioni necessarie per originare tutte le cellule di una rana.
[A sinistra: Sir John B. Gurdon (1933- …) – Gurdon Institute, Cambridge, UK]
Sono dovuti passare ben 35 anni da questo esperimento perché la stessa tecnica fosse applicata da Ian Wilmuth sulla pecora Dolly (clonata nel 1997).
La tecnica alla base della clonazione (nuclear transfer) fu subito salutata da alcuni come la via maestra per creare cellule embrionali allo scopo di ottenere tessuti e organi: la cosiddetta clonazione terapeutica in cui il clone non viene impiantato in utero per nascere, ma cresciuto in vitro per ottenere linee cellulari di varia tipologia. In realtà verso questa tecnica si è anche creata da subito una certa opposizione, perchè ritenuta da molti ricercatori (e anche da molte agenzie regolatorie) come non rispettosa della dignità della persona ed eticamente impraticabile.
Yamanaca nasceva nel 1962 quando Gurdon publicava i dati dei suoi esperimenti e il lavoro fondamentale che gli ha meritato il Nobel è di 44 anni dopo. Yamanaka, con molto ingegno e un po’ di fortuna, ha dimostrato per la prima volta che una singola cellula matura e specializzata di topo poteva ritornare allo stadio immaturo non specializzato (2).
[A destra: Shinya Yamanaka (1962- …) – Kyoto University, Kyoto, Japan e Gladstone Institutes, San Francisco, USA]
Con sorpresa vide che introducendo alcuni geni nella cellula adulta questa diveniva capace di proliferare e sviluppare tante tipologie cellulari (esprimendo una pluripotenza simile a quelle di una cellula embrionale).
Le cellule così «riprogrammate» (indotte) sono state chiamate con l’acronimo di iPSc (induced Pluripotent Stem cells o cellule staminali pluripotenti indotte).
È fuori discussione che l’esperimento di Yamanaka ha aperto una strada alternativa all’uso di embrioni e alla clonazione contribuendo a diminuire di molto l’interesse per la produzione di nuovi embrioni umani, ma non tutti i laboratori hanno accettato questo orientamento. Anche lo stesso Wilmuth, dopo gli esperimenti di Yamanaka, dichiarò che questa tecnica era migliore della clonazione, perché l’efficienza della clonazione in termini di successi era e rimane assai scarsa.
Aspirazioni, speranze e interessi economici e ideologici
In questo sistema di rapida e globale comunicazione che ci caratterizza è sempre presente una gara a sottolineare per ogni avvenimento ciò che più sta a cuore o si ritiene utile e interessante. Così anche alla notizia di questo Nobel è successa la stessa cosa.
Semplificando molto: soprattutto il mondo cattolico ha giustamente sottolineato la positività di questa nuova tecnologia di Yamanaka, ritenuta rispettosa dell’integrità dell’essere umano. Essa dimostrerebbe che ricerca ed etica si possono coniugare virtuosamente.
Al contrario molti radicali (vedi l’associazione “Luca Coscioni”) hanno subito colto l’occasione per enfatizzare la libertà di ricerca dando addosso all’oscurantismo clericale che applaude Yamanaka e vuole lasciare «marcire» nei congelatori le decine di migliaia di embrioni umani da loro ritenuti utili al progresso scientifico e medico. Quasi tutti i mass media hanno enfatizzato la possibilità di usare queste tecnologie per lo studio delle patologie e lo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici e terapeutici ai quali sono anche molto interessate le industrie farmaceutiche. I più ottimisti hanno già previsto la possibilità di curare le peggiori patologie con cellule, tessuti e organi costruiti in provetta.
Come sempre la realtà è variegata e insieme a piccole verità si mischiano spesso grandi bugie.
Tutti gli auspici e le speranze sono legittime ma devono essere considerate tali. I progressi nella applicazione medica esigono conoscenze biomediche approfondite che necessitano di tempo e soprattutto devono tenere in conto le regole da rispettare. Molta euforia dovrebbe essere temperata da considerazioni più realistiche di natura medica, biologica e più in generale antropologica ed etica.
Non potendo qui trattare tutti questi aspetti ne vorrei almeno accennare alcuni, sicuramente già noti a chi ha seguito l’evoluzione di questa materia.
Dal 2006 in poi, dopo le entusiastiche dichiarazioni iniziali, sono cresciute le voci prudenziali nei confronti delle applicazioni cliniche delle iPSc. Come spesso succede in scienza, quando una scoperta accende qualche luce su aspetti della biologia ancora sconosciuti, i problemi non solo non diminuiscono ma anzi, spesso, aumentano. Illuminando un luogo buio si vede quello che prima non si poteva vedere. Negli anni successivi al 2006 si è quindi cercato di approfondire meglio i fenomeni complessi e ancora scarsamente conosciuti che regolano l’espressione genetica, il ruolo di particolari geni, dei lori fattori di trascrizione e più in generale di quelli chiamati fattori epigenetici (che non dipendono dal DNA).
Tra i numerosi articoli scientifici è stato emblematico quello di Martin Pera, apparso sulla rivista Nature nel 2011 dal titolo Il lato oscuro della pluripotenza indotta (3) che riassume molte delle domande e dei problemi correlati alla biologia e alla sicurezza clinica delle iPSc.
Molti di questi rischi sono simili o identici a quelli già evidenziati nell’uso delle cosiddette cellule staminali embrionali e dovuti alla loro elevata instabilità genetica con conseguente aumento del rischio tumorigenico. Una recentissima pubblicazione dell’ottobre 2012 (4) indicherebbe addirittura che il processo di induzione di pluripotenza è del tutto simile a quello che rende una cellula tumorale. Questi rischi considerati pericolosi per l’uso delle cellule embrionali sono stati per anni l’argomento principe utilizzato per combattere l’uso di embrioni.
È strano che gli stessi sembrano ora dimenticarsene mentre promuovono a pieni voti l’utilizzo clinico delle iPSc. Questa discrepanza ci offre l’opportunità di ribadire e ricordare che la vera ragione contro l’uso di embrioni rimane quella di natura antropologica e tutte le altre vi sono subordinate. Il rapporto rischio/beneficio nell’uso terapeutico è certamente un problema cruciale, ma tipico di ogni approccio medico e va valutato caso per caso.
Prima e al di sopra di questo problema occorre comprendere e sostenere la vera e più umana ragione che riguarda il valore della vita umana e la sua dignità. Non è infatti accettabile creare vite umane individuali (reali e non potenziali come qualcuno pensa siano le blastocisti) per sopprimerle e utilizzarle per produrre cellule. Anche qualora fossero clinicamente efficaci e sicure.
Alcuni problemi connessi all’uso di iPSc
Quali problemi pone l’uso delle iPCs è stato bene descritto in molti lavori scientifici che accanto a considerazioni di natura biologica e medica ne hanno segnalate altre di natura sociale, giuridica ed etica.
Come avviene per molte tecnologie intrinsecamente buone, è l’uso che si intende farne che può mettere in evidenza anche gli aspetti negativi o problematici. Alcuni aspetti messi in evidenza da tempo riguardano il problema della «privacy» e del «consenso» qualora si pensi di utilizzare queste linee cellulari in modo eterologo.
Le linee cellulari iPSc contengono informazioni genetiche del suo donatore e anche la proposta di rendere anonime queste linee cellulari non ha soddisfatto chi ritiene che il loro imprinting genetico resta identificabile e riconducibile al donatore . Anche perché lo scopo per cui esse sono «costruite» e utilizzate (la cura) prevede come essenziale la loro «tracciabilità» e quindi anche il legame con il donatore. Anche la natura e lo scopo del consenso è stato discusso: il consenso informato del donatore deve essere considerato definitivo e permanente oppure limitato nel tempo? Anche nel caso di uso per la ricerca, un generico consenso sulle proprie cellule non sarebbe realmente un consenso «informato», perché non in grado di comprendere anche future, non previste, informazioni o utilizzazioni.
Allo stato attuale delle cose, un generico consenso non protegge dal rischio di applicazioni discutibili che si possono fare con queste linee come la produzione di gameti o di embrioni per citarne alcune. Anche la forte spinta brevettuale per la commerciabilità di queste tecnologie potrebbe incidere negativamente sui presunti benefici sociali dell’utilizzo delle iPSc.
Negli Stati Uniti alcuni donatori hanno già preteso diritti economici per cellule da loro donate e fatte uso di prodotti commerciali, anche se le loro ragioni non sono state accolte.
Più gravi e inquietanti appaiono gli aspetti di natura etica che possono essere connessi a un certo utilizzo clinico delle iPSc.
La domanda essenziale cui si deve ancora rispondere riguarda l’equivalenza tra iPSc e cellule embrionali e per rispondere a questo si sostiene la necessità di maggiori ricerche sulle cellule embrionali umane, compresa la invocata necessità di dover studiare le iPSc in modelli animali creando chimere e ibridi uomo-animale. Anche la derivazione di gameti a partire da iPSc, aprendo la strada alla loro applicazione nel campo degli studi sulla fertilità, ha posto la necessità (per giungere alle applicazioni cliniche) di verificarne la funzionalità e quindi di dover creare e distruggere in laboratorio altri embrioni umani.
Il modo a volte ambiguo o intricato con cui questi problemi si affacciano non aiuta l’opinione pubblica a coglierne la portata. Tuttavia essi devono indurci a una seria riflessione e alla vigilanza perché siano affrontati senza pasticci e senza cadere nella tentazione di prendere scorciatoie pericolose.
Occorre soprattutto «realismo» perchè «quando la coscienza si distacca dalla realtà, si insinua lo stato di sogno: è quando si commettono i grandi equivoci prodotti dalla distrazione che è più che mai disattenzione, abbandono, mancanza di contatto con la realtà» (Maria Zambrano, Per l’amore e per la libertà, p. 148).
Le implicazioni antropologiche
Una riflessione finale, ma fondamentale, imposta da questa scoperta riguarda alcune implicazioni di natura antropologica che accompagnano lo stupore che essa ha suscitato in molti biologi.
La scoperta di Gurdon e Yamanaka è il risultato della tenace quanto caparbia volontà di dimostrare ciò che i dogmi della biologia classica hanno sempre tendenzialmente considerato improbabile: fare regredire una cellula da uno stato maturo differenziato e specializzato a uno stadio primordiale indifferenziato. Anche la modalità di comunicazione di questa scoperta è sostenuta dall’aspetto suggestivo che una cellula «adulta», matura, può ritornare a essere «bambina» per un meccanismo che gli stessi scopritori hanno chiamato «riprogrammazione».
Nella fantasia di poeti e letterati questo tema è stato sempre di fascino e svolto in svariate forme: dal mito della eterna giovinezza alle teorie della reincarnazione o delle filosofie palingenetiche. Anche di recente è stato riproposto in un film tratto dal racconto di Scott Fitzgerlad (1922), Il curioso caso di Benjamin Button, nato vecchio e diventato bambino. Anche il biologo tedesco Ernst Haeckel si è riferito a teorie palingenetiche per suggerire quella da lui definita «legge biogenetica fondamentale» per cui lo sviluppo ontogenetico (dell’individuo) ricapitolerebbe le tappe della sua evoluzione (filogenesi).
Il tema della rinascita all’incrocio tra biologia, filosofia e anche teologia ha sempre suscitato interesse per il cuore e la ragione dell’uomo che si chiede se è davvero possibile che accada. Anche Nicodemo chiese a Gesù che parlava della «rinascita»: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?».
Le scoperte di questi Nobel aprono orizzonti nuovi, ma anche inquietanti perché esse toccano aspetti fondamentali all’origine della vita stessa. I biologi sanno ormai che il genoma non è tout court la sequenza di DNA, ma un network assai complesso di fattori e funzioni che non ha paragoni (forse gli si avvicina quello dello stesso cervello umano). Il genoma è l’insieme del DNA e di tutti quei fattori chiamati epigenetici che sono influenzati anche da aspetti esterni alla cellula e all’organismo.
La scoperta di Yamanaka, rivelandoci un comportamento biologico imprevisto, riconferma anche la nostra totale ignoranza sul funzionamento del genoma secondo il noto assioma di Karl Popper: «Solo il nostro sapere è circoscritto mentre la nostra ignoranza è necessariamente illimitata» (Salisburgo, Conferenza del 27 luglio1979).
In qualche modo anche la biologia indica che noi non siamo solo «il nostro genoma» mostrandoci che le regole della vita non sono state scritte da noi. Se per dono, ingegno o fortuna riusciamo a scoprire queste regole allora dobbiamo essere grati di prendere coscienza che noi non siamo «creatori», ma «creature».
Come ha scritto Benedetto XVI: «La considerazione dell’uomo come creatura appare scomoda poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro – non gestibile dall’uomo – che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati. Eppure questa dipendenza, da cui l’uomo moderno e contemporaneo tenta di affrancarsi, non solo non nasconde o diminuisce, ma rivela in modo luminoso, la grandezza e la dignità suprema dell’uomo, chiamato alla vita per entrare in rapporto con la Vita stessa, con Dio».
Augusto Pessina
(Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche e Odontoiatriche dell’Università degli Studi di Milano)
Indicazioni bibliografiche
- Gurdon, J.B. (1962), The developmental capacity of nuclei taken from intestinal epithelium cells of feeding tadpoles, Journal of Embryology and Experimental Morphology 10:622-640
- Takahashi, K., Yamanaka, S. (2006), Induction of pluripotent stem cells from mouse embryonic and adult fibroblast cultures by defined factors, Cell 126:663-676
- Martin F. Pera (2011), Stem cells: The dark side of induced pluripotency, Nature,471:46–47
- Riggs J.W., Barrilleaux B.L., Varlakhanova N., Bush K.M., Chan V., Knoepfler P.S. (2012), Induced Pluripotency and Oncogenic Transformation Are Related Processes, Stem Cells Dev.Oct 26, [Epub ahead of print].
© Pubblicato sul n° 47 di Emmeciquadro