La scorsa settimana, il Parlamento europeo ha evitato la morte dell’ETS (Emission trading system), il sistema europeo di scambio delle emissioni di CO2. Si è trattato di un ripensamento dato che l’aula poche settimane prima si era espressa in maniera opposta, subendo forse la pressione lobbistica dell’industria più arretrata – compresa purtroppo, come troppo spesso avviene, la nostra Confindustria. Ora la palla passa al Consiglio per l’approvazione finale, ma poi si dovrà avviare la necessaria riforma strutturale dell’ETS al fine di evitare nuovi surplus sul mercato.
In buona sostanza, l’Europarlamento ha approvato la proposta della Commissione di congelare (backloading) la vendita all’asta dei permessi “una sola volta per un numero massimo di quote pari a 900 milioni” al fine di incoraggiare le imprese a investire in innovazione a basse emissioni di carbonio, dopo la bocciatura di tale misura avvenuta in aprile. Grazie al congelamento delle quote sarà possibile ripristinare l’effetto d’incentivazione del sistema di scambio di emissioni, progettato per diminuire le emissioni di gas a effetto serra e contrastare i cambiamenti climatici.
Il sistema ETS è quasi al collasso per il forte accumulo di eccedenze – stimate al 2020 in almeno 1,8 miliardi di quote – dovuto non solo alla recessione economica, ma anche alla generosa allocazione di quote nella precedente fase 2008-2012. Eccedenze che hanno portato il prezzo del carbonio da 30 ad appena 4 euro per tonnellata di CO2, disincentivando così gli investimenti nelle tecnologie a basse emissioni di carbonio.
Per far fronte a questa situazione di forte emergenza, è importante procedere immediatamente con il backloading. Si tratta di una soluzione di buon senso, in grado di garantire nell’immediato la stabilità del sistema, in attesa dell’adozione delle necessarie misure strutturali di lungo periodo, senza compromettere la competitività dell’industria europea. Il backloading, infatti, non riduce in alcun modo le quote concesse gratuitamente alle imprese dei settori – come l’acciaio o il cemento – ad alta intensità energetica.
Subito dopo si dovrà concordare una riforma strutturale del sistema. La soluzione più efficace è innalzare dal 20% al 30% l’obiettivo europeo di riduzione delle emissioni in modo da garantire l’eliminazione strutturale del surplus previsto al 2020. Una grande opportunità anche per rivitalizzare l’economia europea. È quanto emerge da uno studio del governo tedesco che evidenzia come con il passaggio al 30% nei prossimi anni in Europa si possono creare ben 6 milioni di nuovi posti di lavoro. Con un aumento medio annuo rispetto all’attuale trend dello 0,6% del Pil e del 4% (dal 18% al 22% del Pil comunitario) degli investimenti.
Mantenere l’obiettivo del 20% – considerato dal mercato ormai raggiunto con le politiche climatiche in atto, visto che si è già raggiunto il 17,5% rispetto al 1990 – significherebbe invece scoraggiare gli investimenti nell’innovazione, senza i quali l’economia europea non ha futuro.
Secondo lo studio tedesco, per sfruttare al meglio le potenzialità del passaggio al 30% è fondamentale integrare la politica climatica in un quadro di misure economiche e fiscali coordinate a livello comunitario e finalizzate a incentivare gli investimenti nelle tecnologie pulite “low-carbon”. In questo modo l’industria europea può consolidare e rafforzare la sua competitività globale scongiurando qualsiasi rischio di delocalizzazione.
Tutti i settori economici – agricoltura, energia, industria, servizi – ne trarrebbero vantaggio. Ma in particolare il settore delle costruzioni grazie alle grandi opportunità per gli investimenti nell’efficienza energetica degli edifici vecchi e nuovi. Una grande opportunità anche per il nostro Paese, con una riduzione della disoccupazione del 2,6% (dal 7,6% al 5%), un aumento medio dello 0,5% (dall’1,8% al 2,3%) del PIL e del 6% (dal 20,4% al 26,4%) degli investimenti. Un’opportunità che Europa e Italia non possono lasciarsi sfuggire se vogliono davvero vincere la doppia sfida climatica ed economica.
Un obiettivo ormai a portata di mano. In Europa le emissioni di gas-serra sono diminuite del 17,5% tra il 1990 e il 2011, mentre il Pil comunitario è aumentato del 48% nello stesso periodo. Per l’UE-15 si è avuto invece una riduzione delle emissioni del 13,8% e un aumento del Pil del 43%. Per quanto riguarda poi i principali paesi europei si sono riscontrate le seguenti performance per emissioni e Pil rispettivamente: Italia -5,6% e +24%; Germania -26,2% e +35%; Francia -10,9% e +31%; Regno Unito -27,4% e +57%. A dimostrazione che l’azione climatica non compromette lo sviluppo economico, sfatando così anche il mito che è possibile ridurre le emissioni solo in tempo di crisi.
L’Europa, insomma, è già nelle condizioni per aumentare al 30% il proprio impegno di riduzione al 2020. Non richiede grandi sforzi aggiuntivi per i prossimi anni. E può così contribuire a colmare il preoccupante gap esistente (8-13 Gt di CO2 secondo il recente rapporto dell’UNEP) tra gli impegni di riduzione assunti sinora dai diversi paesi e la riduzione di emissioni indispensabile entro il 2020 per rientrare nella traiettoria di riscaldamento del pianeta non superiore almeno ai 2°C. Dà nuova linfa ai negoziati per un nuovo accordo globale ambizioso e giusto. E può contribuire a farci superare l’attuale crisi economica.
L’Europa e l’Italia possono infatti rivitalizzare le proprie economie fortemente indebolite dalla crisi finanziaria solo investendo nella green economy per vincere la sfida climatica, non più una nicchia ma un nuovo modo di concepire l’economia e il suo sviluppo
Mauro Albrizio
Direttore Ufficio Europeo Legambiente
Francesco Ferrante
Vicepresidente Kyoto Club