Il Sussidiario.net pubblica tre racconti in tre puntate, tratti da Vacanze Milane – La città della cura, cura della città, terzo volume del progetto “Le nuove meraviglie di Milano”, curato da Luca Doninelli per il Centro Culturale di Milano. “La rinascita delle città, la conservazione dei tesori della letteratura antica, il fiorire dei commerci, il sorgere di istituti di credito non si spiega solo con il calcolo degli interessi: solo la larghezza di un dono può produrre le premesse di un’esperienza umana collettiva come una civiltà. Le condizioni politiche, economiche e culturali del tempo presente ci obbligano, oggi, a tornare con rinnovato interesse all’alba dell’Occidente, e non più al suo tramonto. Su questa speranza, confortata da mille segnali positivi, si fonda lo sguardo, mio e dei miei compagni di cammino, sulla nostra amata città” (dall’introduzione di Luca Doninelli al volume).
Dopo “Il beige”, di Paola Caronni, ecco “S. Vito al Pasquirolo, Diocesi di Chersoneso, Largo Corsia dei Servi, Mosca”, di Tatiana Piras (sezione Mutazioni). Ovvero Milano negli angoli più strani della città. Una ricognizione curiosissima di un pezzo di Russia nel centro di Milano.
Le mie domeniche mattina in genere sono scandite da un appuntamento obbligato, due ore in palestra a cavallo della pausa pranzo. Tra le 12 e le 14 le strade del centro anche in inverno sono poco frequentate, in alcuni punti; scelgo quest’ora per uscire proprio per sorprendere una Milano silenziosa e riposata. Mi muovo da Corso Italia verso via Santa Radegonda, quindi piazza Fontana. Faccio il giro intorno alla sede dei Ghisa in piazza Beccaria, per finire in corso Europa. In quel lato corso Europa ha un marciapiede che è un portico lastricato, un rifugio sicuro e accogliente per molti senzatetto che dall’insenatura che fa la sede dei ghisa fino a questo porticato bivaccano talvolta numerosi: file di sacchi a pelo, da dove spesso spunta un cane addormentato con la testa appoggiata accanto a quella del padrone. All’altezza del n. 13 si apre un ampio slargo a forma di quadrato con il perimetro di porticati che mette in comunicazione corso Europa con corso Vittorio Emanuele, la Galleria Passarella e piazza Beccaria. Si apre dapprima una strada, con in mezzo un’edicola di giornali alla domenica sempre chiusa; un parcheggio sotterraneo, Mediolanum parking che ha per tetto un prato verde con i resti delle terme erculee; nei rimanenti tre lati porticati lastricati anche qui dimora abituale di senzatetto, la domenica mattina. Il quadrato si chiude con il lato in cui si trova l’entrata della palestra e quella di due cinema, il Mediolanum e il Corallo, ormai chiusi da tempo e in stato di completo abbandono. Questo lato della piazza sfocia in piazza Beccaria. Sono portici di edifici costruiti negli anni 50 frutto di una ricostruzione frettolosa della città, quando per costruire si continuava a buttar giù tutto ciò che restava dei bombardamenti. In principio nati forse come edilizia residenziale, via via abbandonati da famiglie e residenti per diventare sede di studi legali, di studi commerciali, multinazionali. Durante la settimana brulicano di vita cittadina, shopping, uffici e rappresentanze estere di multinazionali; il parcheggio inghiotte e sputa un’auto al secondo, intorno un vortice umano anonimo e frettoloso. La domenica però quest’ angolo di Milano tace, nascosto come è alle folle dei fanatici dello shopping domenicale, che come un enorme serpente umano intasano compatti Corso Vittorio Emanuele e Corso Matteotti. Non ci sono negozi aperti lungo il perimetro di questo slargo solo una profumeria, ma ha l’accesso principale da corso Vittorio Emanuele e una pizzeria molto discreta ha posto fuori qualche tavolino. Sotto questi portici i senzatetto rimangono a sonnecchiare dentro i loro sacchi a pelo tutto il giorno, mentre altrove sono costretti a sbaraccare molto presto, anche la domenica. Questo perimetro racchiude come uno scrigno una piccola chiesetta, una grande aiuola quadrata con degli olmi alti e ricoperta in parte da un’edera che corre fitta per un lato. Dentro l’area verde ancora resti delle terme erculee. D’estate l’aiuola è particolarmente verde e gli alberi fanno ombra e frescura. Qui un tempo si diceva ci fosse luogo del Pasquirolo, cioè un pascolo e questi alberi e questo prato sono sicuramente una traccia rimasta. Negli anni il Pasquirolo divenne un borgo popolare e così rimase fino al bombardamento dell’agosto del 1943, quando spezzoni incendiari lo distrussero, come accadde a tutti gli edifici popolari del centro di Milano. La chiesetta è di fronte a quest’area verde e adiacente a un edificio a un piano, di recente costruzione, che ospita la fondazione Lazzati. La chiesetta è san Vito al Pasquirolo, ormai non più destinata al culto ambrosiano, perché accorpata a quella di san Carlo per questa funzione, in corso Vittorio Emanuele. E’ stata costruita nel 1600, ha una sola navata, qualche affresco di pregio, piccole di cappelle laterali E’ sopravvissuta al bombardamento del 1944, ed è stata abbandonata per circa 30 anni. Come molte chiese di Milano è rimasta chiusa e adibita a magazzino della vicina curia. Ricordo ancora quando passando di lì vedevo quest’area completamente abbandonata, il piccolo boschetto, non ancora curato come aiuola, la chiesetta sempre chiusa e con un aspetto fatiscente; vi è accanto la Fondazione Lazzati costruzione recente, come un pugno nell’occhio, i ruderi delle terme erculee, il parcheggio. Milano mi sembrava in quel punto come il negozio di un trovarobe, dove ogni cosa è messa lì alla rinfusa. E poiché Milano non butta via niente la chiesetta sedici anni fa è tornata a rivivere quando la diocesi ambrosiana l’ha assegnata al Patriarcato di Mosca, diocesi del Chersoneso che per riconoscenza l’ha dedicata S. Ambrogio: chiesa di culto ortodosso, esponente della potentissima Chiesa di Mosca.
El prestin de scansc
La Chiesa è di recente istituzione, sebbene esista già a Milano una storica chiesa ortodossa russa, quella in via Giulini, all’altezza di via Meravigli. E’ domenica mattina, faccio il solito percorso piazza Beccaria corso Europa e giungo davanti alla chiesetta: l’area è completamente chiusa da auto in sosta: Mercedes, Bmw, utilitarie con targhe russe. E’ impossibile passare lì in mezzo, nonostante le catene che recingono l’area durante la settimana siano completamente abbassate a terra. Davanti a me una folla di donne, visi tondi incorniciati da fazzoletti colorati: celesti, gialli, di pizzo, di cotone. Sono giovani, anziane, bambine, occupano ogni metro della piazza antistante la chiesa; pochi gli uomini, in verità. Sono la coda, quella che vedo, di un flusso che continua all’interno della chiesa. La chiesa è inavvicinabile, circondata com è da questa folla che si pone ai lati esterni quasi a impedire il passaggio di estranei. Entrare dentro non si può. Intravvedo la porta della chiesa, è stretta e ha due ante, è completamente bloccata dal flusso dei fedeli. Faccio il giro attorno all’aiuola grande, da lì riesco a capire cosa sta succedendo: sono le 11, c’è una cerimonia, fuori all’entrata da quella posizione intravedo un grande schermo televisivo che proietta all’esterno la cerimonia. Sento solo la voce dell’arciprete, ma non lo vedo. I bambini giocano indisturbati e liberi, lontano dagli occhi degli adulti, che non sembrano occuparsene più di tanto. Le donne tengono il volto rivolto verso l’entrata della chiesa, alcune hanno portato fuori delle sedie e assistono alla cerimonia sedute. Dopo un’ora il flusso dei fedeli si riversa verso l’esterno e si spande per lo slargo come un lago colorato: donne, uomini fanno crocicchio, parlano, ma in modo sommesso, nessun vocìo molesto giunge alle strade adiacenti, sostano in modo ordinato e composto per tutta l’area, che ora è davvero impossibile attraversare da un lato all’alto, passando in mezzo a loro. Faccio il giro dall’esterno, voglio ancora rimanere lì a guardare, ma ho paura di dare nell’occhio, mi sento quasi in imbarazzo, osservata, perché mi sento diversa da loro, nel modo di guardare, nel modo di vestire: temo che si sentano a loro volta osservati, non sono volti completamente amichevoli, i loro. Tante donne, sedute nelle sedie di legno che erano impilate all’entrata della chiesa, aprono dei fagotti, forse hanno delle vivande. Dall’interno della chiesa escono ed entrano altri con in mano dei piatti di plastica, fumanti, colmi di pane e non so bene che cosa, forse lasagne, pasta. I più mangiano in piedi, altri, più fortunati, seduti. Anche in questa operazione di distribuzione regna l’ordine e la compostezza. Dopo un po’ tutti hanno il loro piatto e mangiano in una atmosfera cordiale e conviviale. Voglio capire da dove arriva questo cibo: faccio il giro della chiesa vedo che nel retro spunta al primo piano un piccolo balcone, dove stanno appoggiati dei grossi sacchi scuri di spazzatura: accanto, due donne raccolgono dei rifiuti, riordinano e rientrano dentro. E’ dentro la chiesa che sono stati preparati quei piatti, perché dal balcone esce del fumo. Chi ha finito di mangiare si mette di nuovo in coda con il piatto vuoto in mano, accalcandosi all’entrata della chiesa, da dove avviene la distribuzione. Milano Largo Corsia dei servi, 17 aprile 2011.
“Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono. A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada.” ….La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: – pane! pane! aprite! aprite!… A.Manzoni, I promessi Sposi, cap.XII
La chiesa è sempre aperta, durante il giorno ma anche la sera, oltre le 21 si vedono donne che sostano, sedute davanti all’entrata o che entrano o escono dalla chiesa. Dentro durante il giorno c’è sempre una donna in piedi a destra che recita come una serie di preghiere, un rosario, a cui si uniscono coloro che entrano, anche se per pochi minuti. A sinistra dell’entrata, un piccolo banco vende immagini, icone, oggetti di culto, libri, c’è anche una piccola biblioteca, poco più in là. A sinistra dell’entrata un contenitore cilindrico alto un metro raccoglie foulard necessari per coprire il capo delle donne durante le cerimonie. Le cerimonie sono al mattino e al pomeriggio intorno alle 18. Al ragazzo che sta dietro al banco degli oggetti chiedo se hanno un sito o un indirizzo face book. Mi allunga una pubblicazione della chiesa, un giornaletto parrocchiale, in russo in rumeno e ucraino e mi indica in fondo a una pagina l’indirizzo del sito, parla male italiano, ma è gentile. Vedo due enormi tanniche di plastica con dei rubinetti e un piatto a terra: chiedo al ragazzo se si tratti di acqua benedetta, mi fa cenno di sì, ma non sono sicura che abbia capito la mia domanda. Gli incensi che accompagnano la cerimonia mi stordiscono un po’, ma non perdo l’occasione per osservare, capire, come vive questa comunità che ha posto le proprie radici in questo fazzoletto di terra del centro di Milano, in mezzo al business degli affari e della finanza, discreta e nascosta da tutti, ma numerosa. Devo decidermi a tornare con un fazzoletto al capo, per non entrare dando troppo nell’occhio. Qui Milano non c’è più, ma nessuno sa dire cosa ne abbia preso il posto. Non è solo una chiesa, questa è qualcosa di più. Un punto di riferimento per la comunità, un centro di aggregazione, un centro di potere. E’ possibile vedere entrare uscire qualcuno durante tutto il giorno, o sostar all’entrata, più di una volta ho incontrato anche fuori dalla chiesa il parroco in abito da cerimonia fuori dalla chiesa a parlare con qualcuno o percorreva il lato di corso Europa coperto da porticato. Scopro finalmente il sito della chiesa, ma non ricavo nessuna informazione perché è scritto in russo. Cerco qualche notizia in italiano, articoli di giornale, commenti sul web, apprendo che è stata sede di convegni sul dialogo tra chiese sorelle e che durante l’ultimo, settembre scorso, qualcosa non è andato per il verso giusto. L’articolo infatti denuncia con piglio indignato un comportamento piuttosto singolare degli organizzatori, appunto i responsabili della Chiesa russa di San Vito al Pasquirolo, i quali avrebbero cacciato un esponente di una chiesa sorella, un arcivescovo invitato, al suo presentarsi all’ingresso. In altri articoli la chiesa è ricordata per l’aiuto dato ai bambini di Chernobyl, per aver ospitato la più venerata icona sacra proveniente da un monastero ucraino, per le cerimonie ortodosse di Pasqua e Natale a Milano.
Ultimo spettacolo
E’ sera, oggi piove, esco dalla palestra per raggiungere piazza Beccaria. Ogni volta che passo lungo questo lato del porticato vedo ancora le insegne spente del cinema Corallo, cinema Mediolanum; cerco di ricordare quando sono stati chiusi, forse qualche anno fa, prima l’uno e poi l’altro. Da quel momento lì intorno hanno smesso di affollarsi spettatori in attesa di entrare per lo spettacolo delle 20, delle 22 o la domenica pomeriggio giovani per il primo spettacolo. Cerco di immaginare quale sia stato l’ultimo film proiettato prima della chiusura definitiva, di ricordare se ho mai assistito alla proiezione di qualche film, lì. Ricordo solo di esserci stata, qualche volta, ricordo che erano ampi, ciascuno con un’unica sala. Ora se si guarda, dentro sono come un ventre vuoto e buio, anche l’insegna è sbiadita, le vetrate d’ingresso sporche o impolverate; aspettano forse di essere venduti a qualche multinazionale del lusso o della moda per rinascere come megastore. E allora la pace della domenica mattina finirà, i senza dimora faranno fatica a trovare il marciapiede libero, la chiesa con le sue funzioni perderà il silenzio e la riservatezza e dovrà fare i conti con orde di fanatici dello shopping domenicale. Anche qui Milano si sta trasformando, non c’è più la Milano del cinema della domenica pomeriggio di tante generazioni. Poco più avanti, c’è un altro illustre defunto della cultura, in piazza Beccaria, proprio davanti alla statua un intero edificio, il teatro Girolamo in corso di ristrutturazione, chiuso per anni, uno spettro di fatiscenza e degrado. Nessuno lo conosce più, pochi lo ricordano, l’ultimo spettacolo 1956. Se invece si arriva da corso Europa a via Larga il Teatro lirico non dà uno spettacolo differente di sé: chiuso per anni ora sembra in fase di ristrutturazione, anche se i lavori sembrano procedere lentamente. Anche la viuzza che costeggia il teatro e che mette in comunicazione via Larga con via s. Tecla, è chiusa al traffico, regna il degrado: sporcizia, accumuli di materiale edilizio , l’insegna di un Night club. La notte sostano anche qui barboni e senza fissa dimora. La chiusura di questi luoghi simbolo della cultura milanese sta trasformando le strade e i luoghi intorno in punti di degrado, culle dell’abbandono, oppure realtà altre stanno prendendo il sopravvento. Nessun cinema, teatro riesce più a sostenere i costi dell’affitto in centro, nessun cinema o teatro ha un’utenza tale che possa giustificare la copertura di costi di gestione impressionanti e per questo chiudono; lo scenario che si apre intorno è sempre lo stesso: quando scompare il rito quotidiano degli spettacoli scadenzati in quegli orari canonici questi edifici diventano spettri dell’abbandono e del degrado, diventa persino pericoloso passarci la sera tardi. Il teatro lirico fa fatica a risorgere e dunque chiudono persino i ristoranti che erano dei dopo teatro. Alcuni sono diventati negozi di abbigliamento, gestiti da cinesi, come se ne vedono tanti in centro. Mi chiedo dove vanno ora i frequentatori abituali del Lirico, del cinema Mediolanum e Corallo, la cultura ha preso altre strade o è scomparsa un certo tipo di utenza.
La Barbarinetta del Verziere
Il cielo è di un blu cobalto inquietante questa sera e non ha piovuto e non sembra che pioverà. Ma è maggio e un tempo un po’ pazzerello ce lo si puo’ ancora aspettare. Cammino giusto per fare quattro passi dopo cena, attraverso via degli Albricci, raggiungo la statale e i giardini di via Festa del perdono, mi siedo su una panchina ad osservare i tanti padroni con i loro cani che pian piano abbandonano le aiuole per far ritorno a casa e lasciano la piazza in un silenzio medievale. Alle mie spalle l’ombra della Statale con i suoi mattoni rossi in cotto lombardo in un bel contrasto con il verde del prato. Mi allungo per sgranchirmi le gambe e mi dirigo verso via S.Antonio, lunga e stretta che mi riporta alla vita, al traffico in via Larga. Anche qui il traffico è contenuto questa sera, solo il rombare di qualche auto che sfora i limiti di velocità , sfrega le gomme sulle rotaie dei tram quando si arresta al semaforo, al semaforo del Verziere. Alzo gli occhi verso la colonna che ha in cima la statua: il Redentore è una macchia scura indistinta. Di fronte a me largo Augusto con il suo parcheggio per i taxi, a destra san Bernardino alle ossa, con un piccolo giardinetto che forse è ciò che rimane del Verziere. Un tempo qui c’era il mercato, la forca per i ladri, le streghe e gli assassini, case di poveri cristi, case di prostitute.
Le panchine del giardino sono lì, in una di esse è seduta una ragazza e piange. Lo so che tra poco dovrò tornare indietro, qualche goccia sulle mie braccia mi dice già che sarà così. Tiene la testa tra le mani scure e singhiozza. Mi avvicino e mi siedo accanto a lei. Alza finalmente il viso incorniciato da capelli ricci raccolti a cipolla sulla nuca, non smette di singhiozzare. Fissa i filari regolari delle aiuole. Cerco di parlarle, di capire cos’è quella disperazione. Forse avrà 18 anni, ma il viso è provato. Si chiama Hasna, dice, è egiziana. E’ buio, in quel giardino ormai tra un po’ chiuderanno, il busto del Porta , sembra che ci scruti.
Hasna viene dall’Egitto, con tutta la famiglia. Suo padre ha aperto una pizzeria nel quartiere stadera 25 anni fa, vende pizze e fa il pane la mattina. Hasna e la sorella lavorano con lui quando hanno tempo dopo la scuola. Tutto andava bene, mi racconta Hasna, finchè la scorsa estate non è arrivato Karim, un aiuto per il padre, che non ce la faceva più: Karin era un bravo pizzaiolo, anche lui dall’Egitto. Karin aveva 25 anni, alto, bello, e con dei grandi occhi verdi che facevano uno splendido contrasto con la pelle ambrata e un po’ lentigginosa del viso. Era come un angelo, dice Hasna, bello e bravo e non ci volle molto perchè avesse simpatia per lei. Nessuno se n’era accorto in pizzeria, né la madre, troppo presa a riordinare e tenere i fratellini né la sorella che invece sognava di scappare presto via di lì e fare all’Università, legge, diritto internazionale. Era molto brava Asja, a scuola, era la prima anche della scuola araba. Karim era gentile con Hasna, la sollevava dai lavori pesanti, la copriva dai rimproveri del padre; iniziarono a vedersi anche fuori, qualche volta, dopo la scuola, quando la pizzeria era chiusa, e oramai era chiaro, senza Karim Hasna non ci riusciva a stare. Lui glielo diceva, avrebbe aperto una pizzeria, sì, anche lui, tutta sua, giù, in fondo, verso Rozzano, dove stavano costruendo quelle nuove case, con il forno a legna anche per il pane, perché certi tipi di pane li sapeva fare solo lui e non lo doveva dirlo a nessuno, Hasna, neanche al padre.
Ma un giorno accadde una cosa, brutta, singhiozzò Hasna, una cosa che non doveva succedere: qualcuno rubò l’incasso della giornata e quando il padre riaprì la pizzeria dopo le 4 del pomeriggio se ne accorse: erano tanti soldi, i soldi della mattina e della sera prima. E siccome era stato Karin a chiudere la pizzeria tutti pensavano a lui, ma non era vero. Il padre lo chiamò, Karim, per dirgli che lo avrebbe fatto arrestare e rimandare in Egitto, subito, perché lui quelli del Commissariato Bocconi li conosceva da 20 anni, perché venivano in pizzeria da lui. Ma non era stato Karim a rubare, ma a lui avevano dato la colpa; e per questo voleva fuggire, per non essere arrestato e tornare in Egitto. E così fece: la mattina dopo non si presentò e il padre, che l’aveva detto, chiamò la polizia vicino alla Bocconi e lo fece cercare. Hasna, non poteva stare lontano da lui, quando lui la cercò se ne andò anche lei, a casa di un loro amico, a Varese, dove il padre e la polizia non sarebbero mai arrivati. Sarebbero andati via da Milano, avrebbero aperto una pizzeria, lontano, e non avrebbero più incontrato nessuno. Ma Asja, era preoccupata per lei e lei il nome dell’amico se lo ricordava e lo disse al padre. La polizia dopo 10 giorni li trovò, riportò Hasna al padre e catturò Karim. Ma Hasna, in pizzeria non ci voleva tornare, troppi ricordi e poi, Karin gliel’aveva detto se l’avessero catturato, lui faceva di tutto per dimostrare che non era stato lui. Sì, lei in pizzeria non ci voleva più tornare. Karin venne arrestato e gli furono preparati i documenti per andar via, tornare in Egitto, e lei che in Egitto, che neanche conosceva , non voleva seguirlo. Aveva un’ amica che l’aiutò in un nuovo lavoro, la lavanderia dell’hotel President, lì, mi indicò voltandosi. Ora era lì che lavorava, a casa doveva sempre tornare, ma almeno non vedeva più la pizzeria del padre, e nemmeno il padre perché era sempre al lavoro quando lei rincasava e dormiva quando lei lavorava. Karim era lontano, anche Asja glielo diceva- rimpatrio obbligato per chi ha commesso un reato. Non ne sapeva più nulla….” Hasna continuava a singhiozzare, mentre s’inchinava per raccogliere il sacchetto di abiti sporchi da portare a casa. Il guardiano del giardino era arrivato, ci guardava per dirci che dovevamo uscire, si chiudeva tra 10 minuti. Ci alziamo per uscire, sentiamo alle nostre spalle il cancello chiudersi e il rumore delle chiavi. Facciamo insieme qualche metro sul marciapiede, mi sembra ora più serena, le dico, con finta convinzione, che ogni cosa si aggiusta con il tempo, ma scuote il capo, come chi è senza speranza. Mi saluta con un cenno della mano mentre raggiunge piazza Fontana dove fa capolinea il 15. Riprendo via Larga e torno a casa.
Sono tornata al Verziere ieri, dopo una settimana, facendo la stessa strada, via Larga per giungere in Largo Augusto. Il Verziere è sempre stato un luogo simbolo del male a Milano, abitato da prostitute e streghe, donne del demonio; La Confraternita di Porta Tosa nel 1573 decise di far costruire una colonna con il Cristo Redentore in cima,e con il volto verso la chiesa di san Bernardino alle ossa: come un catalizzatore di forze del male, avrebbe dovuto riportare il bene in questa triste area. Quasi nessuno oggi si accorge di questa colonna, altissima e soffocata dall’indifferenza dei passanti e dal traffico cittadino, intensissimo in questa zona. Fu finita di costruire solo nel 1611. Più tardi si riportarono su questa colonna i nomi degli eroi delle V Giornate di Milano e ancora oggi si leggono.
Barbarinetta abitava al Verziere, al tempo della fine dei lavori della colonna. Rapita da alcuni malviventi si innamorò di un giovane della banda. Catturato e arrestato, l’uomo venne impiccato proprio al Verziere, in faccia alla casa della ragazza, che, non reggendo alla disperazione, si buttò dal balcone. La leggenda narra che il Cristo della colonna si voltò dall’altra parte per non vedere la tragedia e così lo trovarono i milanesi il giorno dopo, con il volto verso via Durini, come oggi si vede.
C’è una confusione incredibile in Largo Augusto e sono le 22, vedo una pattuglia della polizia, il traffico è bloccato. Il giardino della chiesa è chiuso, c’è un’ambulanza davanti al President, tanta gente, vado avanti e chiedo, nessuno mi fa passare, c’è del personale dell’hotel per strada, uno con l’ aspetto più distinto, forse il direttore dell’hotel, parla con un poliziotto; ma una signora ferma lì mi rivolge la parola, una ragazza della lavanderia dal 6 piano si è buttata giù e da qualche ora lì è tutto bloccato; deviano il traffico in via Sforza, qui si può passare solo a piedi. Per terra se allungo il collo e guardo sotto, vedo un lenzuolo bianco. Alzo lo sguardo verso la colonna altissima, il Cristo è ancora lì con il viso rivolto verso via Durini.
La Ninetta del Verziere
Se amo percorrere a piedi le vie del centro di Milano, non è per una semplice ragione dettata da incombenze ordinarie ma per scrutare i cambiamenti che riesco a registrare. Il teatro Lirico, il cinema Mediolanum sono ampi spazi che rimangono vuoti, ma sono ancora realtà vive nella memoria dei più, non fosse altro per l’indignazione di quanti ne reclamano la riapertura; intanto, cambiano gli spazi intorno e le persone che li frequentano. Quando facevo l’università una collega mi invitava sempre al Lirico a veder l’operetta, rifiutavo sempre dicendo, ci andrò. Ora che lo vedo polveroso e in rovina mi viene il rimpianto di non esserci entrata e la tentazione di promettere a me stessa di tornarci se sarà aperto nuovamente.. Attorno al teatro Lirico, insegne di night club, Centri massaggi ricordano come il Verziere sia sempre stato un luogo di incontri, con le sue case d’appuntamenti, le prostitute, la più celebre delle quali è ricordata dal Porta, la Ninetta appunto del Verziere, avviata all’attività nientemeno che dal fidanzato barbiere che dopo averla amata e rispettata, al termine della storia ne ha tratto ancora vantaggio, piegando la relazione a triste mercato del sesso: clienti abituali, occasionali, il lamento di Ninetta è un lungo elenco di personaggi, episodi di una vita di incontri a pagamento.
Denisa è arrivata in Italia da sola, anzi no, con la sorella: erano partite da Csas per raggiungere uno zio a Milano. Doveva essere una visita, l’avevano sognato di visitare quella città che avevano visto solo in foto. Anche il papà ci era andato, quando erano piccole, ma poi era tornato e loro erano rimaste lì in Romania a sognare le belle vie della moda, i bei vestiti, loro che sembravano delle indossatrici già da quando avevano 15 anni. Alte, bionda Andrea, castana Denisa. Lo zio le avrebbe aspettate all’aereoporto e così loro da Bucarest sarebbero volate per Milano. Avevano portato solo qualcosa, ma con i loro risparmi lì potevano comprare qualche vestito. Lo zio, che le aveva subito accompagnate a casa, non aveva perso tempo e i vestiti glieli aveva comprati già lo stesso pomeriggio del loro arrivo: un giro in piazza san Babila, poi la Rinascente, lì avevano provato jeans, gonne, scarpe, alte a spillo, camicie pull. Erano diventate delle ragazze da sogno, solo nelle copertine dei giornali di moda si vedevano indossatrici belle ed eleganti come loro. Lo zio aveva promesso loro di portarle fuori a cena, avrebbero conosciuto dei nuovi amici, rumeni, che avevano fatto fortuna negli ultimi anni. Avevano comprato un bel locale, in centro, dove si poteva mangiare e bere fino a tardi e ascoltare musica. Denisa e Andrea si sarebbero divertite e avrebbero conosciuto nuove ragazze, giovani come loro, per farsi compagnia e divertirsi la sera. La sera arrivò e vestite con gli abiti acquistati di nuovo entrarono dalla porta bassa nel locale illuminato da poche luci: dentro solo divanetti e musica. Oltre un cortile un altro locale dove mangiarono pasta, pesce, riso, e dolci, la panna cotta e il tiramisù. Provarono anche il vino e i liquori. Mai avevano mangiato tante cose buone, mai si erano divertite così tanto, avevano riso, cantato sedute in quei divanetti; di tanto in tanto si apriva la porta del locale ed entravano uomini, giovani, vecchi eleganti che si sedevano e offrivano da bere, anche a loro. Le altre ragazze della sala li seguivano, talvolta si allontanavano con qualcuno fuori dal locale, per qualche minuto, poi rientravano per portare via la borsetta, salivano in macchina, Ferrari, Aston Martin Porsche, e andavano via. La musica continuava tutta la notte anche quando non si ballava più e lo zio ogni tanto si allontanava per parlare con il suo amico. Andrea era stanca, Denisa invece sempre più eccitata e divertita di trovarsi circondata da tanto divertimento, come non aveva neppure immaginato in Romania, che potesse esistere. Aveva parlato con tanti uomini, provava a parlare in italiano, non era difficile. Poche parole, ma la capivano tutti e lei capiva gli altri perché l’italiano e il romeno si rassomigliavano. Era sicura che se fosse tornata nel locale altre due volte avrebbe parlato bene italiano, con quei signori cosi eleganti che le facevano tanti complimenti. Andrea era stanca e voleva andare a dormire, non si divertiva tanto, non era abituata a quel traffico di saluti, abbracci, complimenti, via vai di gente che non conosceva, e poi lo zio che compariva a e ogni tanto scompariva dalla porta bassa d’entrata, se veniva tenuta aperta ogni tanto si intravvedeva la via Durini e le vetrine di Furla, ancora illuminate, con le belle borse rosse e gialle esposte. Ma era stanca, voleva andare a dormire anche se Denisa non ne voleva sentire di tornare indietro. Bisognava far compagnia agli ospiti, lo zio glielo aveva detto prima di uscire di casa, gli italiani sono molto felici di parlare con le rumene, e sono molto generosi, quella bella borsa di Furla domani era sua se faceva almeno un po’ la carina, come faceva Denisa che se ne stava in un divanetto in fondo a ridere con un signore grasso e grosso come Obelix. Ma Andrea voleva tornare a casa, era stanca, le faceva male la testa. Fuori dal locale solo la strada deserta di via Durini, con le sue belle vetrine illuminate di notte. Da fuori non arrivava neanche la musica del night, solo qualche cliente che entrava, parcheggiata la sua auto in qualche garage della zona, faceva capire che lì c’era un locale. Denisa si sentiva a suo agio, rideva e scherzava e non voleva più andar via di lì. Accompagnava fuori quei signori molto gentili che volevano venirla a trovare anche il giorno dopo; lo zio era contento di lei, le sorrideva e lei si divertiva. Non si curava del fatto che la sorella era stufa, era meglio che il giorno dopo non venisse più. Osservava le altre ragazze, Denisa, rumene e ucraine come lei, alte, eleganti, con i tacchi alti a spillo , spesso uscivano fuori per fumare una sigaretta, appoggiate al muro con la schiena sembravano delle statue e tutti i pochi passanti le osservavano, girando la testa dall’altra parte. Lo zio glielo aveva detto che le avrebbe portate a ballare la sera dopo, un posto magnifico come non ne avevano mai visto. E poi quei signori così eleganti e ricchi avrebbero fatto loro dei bei regali, comprato abiti e scarpe favolose e le avrebbero portate ai ristoranti più belli della città. Ma Andrea non voleva, sarebbe stata a casa la sera dopo, e così Denisa sarebbe andata sola con lo zio, al locale. Lo zio non rivolgeva più la parola ad Andrea, non era più gentile con lei, mentre parlava solo con Denisa, e le faceva tanti complimenti. Andrea si sentiva sola e se ne voleva andare, tornare in Romania per sempre, non le interessava la vita che doveva fare, c’era Denisa che avrebbe accontentato lo zio, era più bella, più allegra ed elegante e poi Milano le piaceva, avrebbe trovato anche un fidanzato, ricco, italiano, e si sarebbe sposata, avrebbe avuto figli, italiani e sarebbe tornata solo a visitare la famiglia. Ma lei no, non c’era portata per vivere lì. E poi il locale era stretto, buio, l’idea di passarci le sere le metteva ansia, come avrebbe potuto lavorare lì, in quel modo e con quello stato d’animo. Era meglio dirlo subito, Denisa restava ma lei sarebbe partita.
Quel pomeriggio Denisa e lo zio erano andati a comprare dei nuovi vestiti, più belli e più femminili. Gli uomini italiani, diceva lo zio, impazziscono per le ragazze rumene belle e alte come loro, fini e bionde. Tutto questo poteva andare, ma per Denisa, a lei non interessava più sentire questi discorsi; glielo avrebbe detto: avrebbe fatto ritorno a casa. Non sarebbe stato contento lo zio di sapere questa cosa, lei lo sapeva già che avrebbe dovuto lottare un po’, e poi sua madre non si aspettava di vederla indietro, già aveva la piccola Barbi, la sorellina, che le dava da fare e loro due lontane erano un sollievo. Vedrai, le dicevano le amiche, lì tutto è diverso, ti piacerà, troverai un fidanzato ricco e ti potrai comprare anche una casa in Romania. Come darle torto, ora che vedeva come viveva Denisa, circondata da attenzioni di uomini giovani e vecchi e lo zio, cosi contento per lei. E poi lo zio glielo diceva, che in Romania gli uomini picchiano le donne se non fanno quello che vogliono e loro lì sarebbero state più libere e trattate da regine, cosa volevano di più. Lei un fidanzato lì non lo voleva, non si sentiva a posto di vivere lì per sempre, e da subito questo fastidio le aveva generato questo rifiuto che feriva lei e la sorella, ma anche lo zio. La città era bella, le vetrine e i negozi potevano essere il sogno di ogni ragazza rumena, abiti firmati, borse, occhiali, tutto era lì a portata di mano per andare in giro vestite come delle regine, ma a lei no, questo non andava proprio.
La sera allo zio mentre le accompagnava al night club, disse che non aveva voglia e che stava a casa. Denisa lo seguì e lei rimase da sola, a casa, in cucina, con la testa appoggiata al tavolo e gli occhi azzurri aperti a pensare a quello strano silenzio che si era creato quando aveva detto di non voler uscire, allo sguardo vitreo, glaciale dello zio, che voleva dire più di 1000 parole. Uno strano presentimento le veniva in mente, era triste e depressa per questo. Voleva scappare ma non sapeva dove andare, non aveva soldi; chiamò al telefono la mamma, con il nuovo telefonino che lo zio le aveva regalato, no, anche lei era fredda e quasi metteva giù prima del ciao. Denisa e lo zio tornarono alle 4 del mattino, Denisa, quasi ubriaca, con gli abiti nuovi aveva i capelli arruffati e il trucco sfatto, sembrava un’altra persona e neanche lei le rivolse la parola. Iniziò dopo un po’ a parlare, dicendo che erano state a casa di un ricco amico dell zio, in via Bagutta, proprio a due passi dal night club, dove sarebbe tornata per una festa il giorno dopo e dove avrebbe conosciuto nuove persone. Si apriva per lei una nuova vita e anche per Andrea doveva essere così, doveva solo abituarsi, avere più tempo per capire la fortuna che era toccata loro, che c’erano nuove possibilità per loro. Ma più sentiva quelle parole e più Andrea si convinceva che quella vita non era per lei e doveva andar via subito. La sera dopo era domenica e quando lo zio le stava accompagnando, disse di no. Denisa allora uscì da sola, lo zio si sedette con lei in cucina, stettero in silenzio a guardarsi senza che nessuno dei due iniziasse a parlare, intuendo ciascuno il discorso dell’altro.
–Andrea – disse lo zio alla fine − guarda che non puoi tornare in Romania, come tu vuoi, abbiamo speso dei soldi per il tuo biglietto, passaporto permesso, non possiamo perdere soldi, noi, lavoriamo tanto e dobbiamo mettere da parte. Tu resti qui, Denisa ti aiuterà, non devi essere scontrosa, sei carina, alla fine sarai la più brava di tutte, qui c’è lavoro, ci sono soldi, un futuro, io sono uno dei pochi che vi può far entrare nel night club.’ È esclusivo, non è per tutti, vi entrano tutti i grandi imprenditori di Milano, alla fine potete lavorare nella moda se volete, ma la sera dovete stare lì. Ora andiamo insieme da Denisa, vedrai che ti divertirai−.
Quella sera, seguendo lo zio a malincuore, pensava che sarebbe stato meglio fuggire da sola e non dare più notizie di sé, avrebbe trovato un lavoro, vero, con i documenti che aveva e poi avrebbe deciso cosa fare. Si sedette in un angolo nel cortile interno di quel palazzo di via Larga, dove aveva un uscita di sicurezza il night club a pensare come fare per realizzare il suo piano. Denisa, la vedeva, era oltre il cancello del palazzo, appoggiata al muro con una gamba piegata beveva un bicchiere di vino, rideva e baciava il ricco signore della sera prima che era tornato a trovarla. Ebbe un gesto di ribellione dentro di sé, voleva tirarla per i capelli, fuori per la strada per farle capire quanto era stupido continuare a dar retta allo zio, che non era quella la vita che erano venute a cercare. Ma forse se ne era già dimenticata, abbagliata dai regali e dal lusso che la circondava. Denisa ora vive a Milano, ha abbandonato ogni progetto di fuga e non pensa più a tornare in Romania.
Bravo el mè Baldissar! bravo el mè nan!
l’eva poeù vora de vegnì a trovamm…
T’el seet mattascion porch che maneman
l’è on mes che no te vegnet a ciollamm?
Ah Cristo! Cristo! com’hin frecc sti man!
Bell bell… speccia on freguj… te voeu geramm,
bolgirossa! che giazz! aja i mee tett!
che bell cojon, sont minga on scoldalett. (…)
Prima de tutt t’ee de savè che fina
de vint agn fa, quand sont restada indree
della povera mamm, la mia medina,
che adess, jesuss! l’è al Gentilin anca lee,
per no invodamm a santa Catarina,
o lassamm andà in cà d’on quaj mestee,
la m’ha tiraa in cà sova e tegnuu inguala
d’ona soa tosa vera e naturala. (…)
Dighel mò tì, per brio! se gh’è ona donna
pussee sana de mì in tutt quant Milan!
Te le taccarà ben lì alla Coronna
la Mora del sciall giald, ma mì, doman!
Ma ovej!… varda che aria bolgironna
l’ha ciappaa sto tò cioll!… scià… scià el mè nan…
dammel car… toeù… l’è tova… ah dio!… ciccin…!
Vegni… ve… gni… ghe sont… Cecca?… el cadin.
(Da La Ninetta del Verziere di Carlo Porta, 1815)
Tatiana Piras