Un uomo politico, dice un noto detto americano, commette una gaffe quando, una volta tanto, dice una cosa in cui crede per davvero. È quel che è successo al presidente della Commissione europea. José Manuel Barroso, in un’intervista al Financial Times di inizio settimana in cui, tra l’altro, sostiene che ”l’austerità è arrivata al capolinea”. Ecco la gaffe di Barroso: “Sono circondato da consiglieri tecnocrati – dice – che hanno ben chiaro in mente il modello efficace per affrontare la situazione attuale dell’Europa. Ma quando chiedo loro come cominciare a muoversi, allora allargano le braccia dicendo: questo non è di mia competenza. La realtà è che noi abbiamo bisogno di ricette adeguate sul piano tecnico, ma forse ancor di più di consenso politico e sociale”.
Insomma, dopo anni (troppi) passati a obbedire ai dogmi puramente virtuali della Bundesbank (rapporto debito/Pil, rapporto deficit/Pil e promessa solenne di puntare al pareggio di bilancio), l’Unione europea fa i conti con le conseguenze politiche dell’austerità. Intanto da Washington Olivier Blanchard, il capo economista del Fmi, dà la sua benedizione alle ultime picconate contro i sacerdoti dell’austerità. Tre economisti di Harvard che collaborano al Fondo hanno dimostrato che la tesi per cui un debito pubblico superiore al 90% del Pil frena la crescita non ha fondamento storico. Anzi, all’origine della tesi, sostenuta da due degli economisti più gettonati degli ultimi anni, Carmen Reinhardt e Kenneth Rogoff, ci sono statistiche sbagliate. E così Blanchard, che ormai alla Bundesbank è visto come il fumo negli occhi, ha ribadito il richiamo alla Germania: sarebbe bene che la finisse con l’austerità almeno in casa propria. Ovvero Berlino farebbe un favore a tutti se producesse un po’ di rosso nei suoi conti.
Nel frattempo, la congiuntura non dà segni di miglioramento. Anzi, anche la Germania raggiunge il plotone dei paesi in netta frenata. E si converte alla politica del taglio dei tassi per la gioia delle Borse. L’obiettivo della Bundesbank è di favorire il ribasso dell’euro nel corso della prossima estate, soprattutto in funzione anti-Giappone. Da quando Tokyo ha avviato la politica dello yen debole, benedetta dal G20, la moneta giapponese ha perduto il 35 % circa rispetto all’euro con conseguenze pesanti per l’export tedesco: Volkswagen e Bmw, ad esempio, perdono punti di mercato a vista d’occhio a vantaggio di Toyota.
È in questa cornice che va inquadrata la decisione, sempre più probabile, che la Banca centrale europea prenderà nella riunione di giovedì prossimo. Le previsioni parlano di un taglio di un quarto di punto dei tassi principali. Non si dovrebbe muovere invece il tasso di remunerazione dei depositi bancari presso la Bce, pari a zero. Ma la prossima mossa sarà il passaggio al tasso negativo: le banche, per parcheggiare la liquidità presso Francoforte, dovranno pagare un pedaggio. Così, forse, potrebbero ripartire gli impieghi verso famiglie e imprese, oggi ferme nonostante una politica monetaria permissiva.
Tutto bene, insomma. O forse no. Il taglio dei tassi può servire a indebolire l’euro per qualche settimana, poi tornerà a prevalere la pressione della carta messa in circolo dalla Fed e dalla Banca centrale del Giappone: 22 mila miliardi di dollari (ma la cifra sale di 150-200 miliardi al mese) che finiranno inevitabilmente anche nelle casse della “virtuosa” Germania . L’interesse negativo sulla liquidità approderà nella speculazione sui derivati o sulle commodities prima che negli affidamenti per le piccole imprese della Brianza o del Brabante.
A sostenerlo, proprio ieri, è stato un testimone al di sopra di ogni sospetto: Joerg Asmussen, membro tedesco del direttorio della Bce, il protagonista del diktat nei confronti di Cipro. Ecco cosa ha detto a proposito del taglio dei tassi. “A causa del malfunzionamento della trasmissione delle decisioni di politica monetaria, il passaggio dei tagli dei tassi di interesse ai paesi periferici sarebbe soltanto limitato, e questa è l’area dove ce n’è più bisogno”. Che fare allora? “L’intervento della Bce ha risolto i problemi di funding delle banche – è la risposta – Ma ci sono altri ostacoli che stanno frenando gli impieghi bancari come una maggiore avversione al rischio, la mancanza di domanda e il capitale inadeguato. E, soprattutto, il fatto che gli impieghi ritorneranno a crescere solo quando la salute dei bilanci bancari sarà ripristinata appieno in tutti i paesi membri. La Bce non può eliminare questi limiti. Questo è il punto dove finisce la nostra responsabilità e inizia quella dei Governi e di altre istituzioni dell’Ue. La politica monetaria non è una panacea per qualsiasi tipo di problema economico”.
Ecco il ragionamento del “consigliere tecnocratico” di cui ha parlato Barroso: noi vi diciamo quel che occorre fare, se poi non fate, pazienza. Non è di nostra competenza. Ma questo atteggiamento, tutt’altro che neutrale, produce conseguenze politiche. La Germania, favorevole al taglio dei tassi, rinvia alla “buona salute” dei bilanci bancari la ripresa del credito nei paesi più fragili. Per ottenere questo risultato la via maestra passa dall’unione bancaria, su cui proprio Berlino frena.
Ancora ieri Angela Merkel ha ribadito che la Germania resta favorevole a un contributo degli azionisti in caso sia necessario un salvataggio ed è contraria a una garanzia europea “standardizzata” sui depositi. Berlino, insomma, teme un coinvolgimento dei contribuenti tedeschi nei costi di salvataggio per istituti di credito di altri paesi della zona euro.
Ma con questo atteggiamento non si va lontano. Si sa che Mario Draghi sta da tempo studiando “strumenti innovativi” per favorire l’afflusso di prestiti verso le imprese di piccole e medie dimensioni. Ma si sa anche che il passaggio è stretto vista la diffidenza tedesca per operazioni che possano coinvolgere di più i capitali tedeschi. Ora, però, ci sono le condizioni per sbloccare la partita. E qui sarà decisivo l’impegno del nuovo governo italiano (speriamo che ci sia) a sostegno dell’azione di Mario Draghi.