I rilievi effettuati dalla Corte dei Conti sul Bilancio di Roma Capitale hanno parlato chiaro: il Comune è a corto di liquidità, i conti mostrano evidenti «gravi irregolarità contabili» che rischiano di far ripiombare il Campidoglio «nella situazione degli anni passati» ed è come mai necessario «riportare il bilancio della gestione ordinaria nell’alveo di una sana gestione finanziaria». Come ha anche spiegato recentemente il primo cittadino della capitale, «la Corte dei Conti ha sottolineato che, al 31-12-2010, Roma Capitale vantava crediti per un importo di 3.345,8 milioni, di cui 2.593 milioni nei confronti della gestione commissariale e crediti nei confronti della Regione Lazio per un importo di 752,8 milioni, di cui 490,7 milioni relativi al fondo regionale trasporti e 221,6 milioni concernenti i contributi per il settore sociale». Crediti che il sindaco di Roma vuole adesso riscuotere al più presto. Proprio per questo giovedì scorso sono state inviate tre distinte lettere, riportanti il logo del Comune, indirizzate rispettivamente al presidente del Consiglio Mario Monti, alla governatrice del Lazio Renata Polverini e al commissario governativo Massimo Varazzani. In attesa di eventuali ma probabili risposte, IlSussidiario.net ha chiesto un commento a Aristide Police, professore di Diritto amministrativo presso l’Università Tor Vergata di Roma.
Professore, iniziamo dai rilievi della Corte dei Conti sulla situazione del Bilancio del Comune di Roma. Cosa può dirci?
I rilievi effettuati dalla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Lazio, sono innanzitutto di tipo tecnico e attengono in particolare al modo in cui è stato redatto il bilancio in cui vengono utilizzate le risorse ordinarie e straordinarie rispetto agli usi consentiti dallo stesso. Indipendentemente da questi dati, il problema del Comune di Roma e di molti altri comuni italiani è rappresentato dal fatto che le risorse a disposizione sono molto limitate, quindi si sono generati enormi flussi di deficit che accumulandosi hanno creato uno stock di debito pubblico locale decisamente rilevante. E’ dunque inevitabile che un ente locale non riesca da un lato a ripagare il debito esistente e dall’altro a continuare a far fronte a un flusso di spese crescenti.
Alemanno ha fatto anche sapere che se questi soldi non dovessero arrivare, «da settembre tutti i servizi, anche quelli sociali, sono a rischio. E non possiamo più pagare le aziende e i fornitori». I rischi di cui parla il sindaco sono fondati?
Sì, credo che su questo il sindaco Alemanno sia stato molto onesto. E’ inevitabile che a fronte dei servizi resi su scala locale o della permanenza di partecipazioni pubbliche in società che gestiscono servizi pubblici locali, vi siano degli oneri ormai insostenibili per l’amministrazione.
Cosa pensa delle tre lettere recentemente inviate?
Sono richieste giuste del creditore nei confronti del debitore ma il vero problema non risiede nel semplice pagamento dei debiti. Certo, questo può essere utile per mantenere in piedi il bilancio di quest’anno, ma il focus d’attenzione dovrebbe essere principalmente puntato sui flussi di spesa che, se non contenuti e ridotti, inevitabilmente si ripropongono di anno in anno in modo sempre più drammatico.
Alemanno è sempre più convinto a voler cedere il 21% di Acea, decisione che sta facendo molto discutere nelle ultime settimane. Cosa ne pensa?
Credo che la gestione di una partecipazione pubblica ci possa essere laddove non c’è un mercato in grado di sostenere l’iniziativa economica. Anche questa partecipazione comunale, che riporta alla questione tutta politica del privatizzare o non privatizzare, affonda le sue radici nel passato: in tutti i governi, di destra e di sinistra, che si sono alternati al Comune di Roma, l’azionista pubblico è sempre stato disattento all’ottica del profitto e quindi di remunerazione della sua partecipazione azionaria nel capitale di una società. Viceversa, ha sempre gestito questa partecipazione con finalità “sociali”, cioè tendenti a garantire utilità ai fruitori finali, incidendo sul carattere meno remunerativo e quindi anche sui margini di utile della gestione che altrimenti potrebbe essere economicamente sana.
Come giudica dunque la questione della vendita di Acea?
La scelta della dismissione e della restituzione al mercato di queste quote può produrre innanzitutto un effetto benefico di creazione di capitali per far fronte o per ridurre lo stock di debito pubblico. Inoltre, dismettendo la partecipazione, si evita il rischio di utilizzare questa stessa partecipazione in termini contrari alle dinamiche e principi di economicità, che tra l’altro è uno dei rilievi contestati a questa amministrazione dalla Corte dei Conti. C’è però un dato di fondo che va riconosciuto e dichiarato.
Quale?
La situazione attuale, in alcune realtà più che in altre, richiede la consapevolezza da parte dei cittadini e utenti che i servizi erogati dalle amministrazioni locali non possono più essere resi in termini di gratuità o di semi gratuità. Quindi, fatta eccezione per le fasce più deboli della popolazione che giustamente possono e debbono fruirne gratuitamente, credo che sia necessario far passare l’idea che anche i servizi pubblici hanno un costo e che questo deve essere sostenuto da chi ne fruisce.
Come potrebbero reagire i cittadini, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo?
Si tratta certamente di assumere un’ottica di sacrificio collettivo che credo sia difficile da accettare nel Paese. Credo che proprio la montante opposizione al governo in carica e alle sue politiche dimostri l’indisponibilità individuale e collettiva ad accettare la riduzione dello stato di benessere. E’ tuttavia un dato di fatto, perché i livelli di benessere e di welfare che si sono raggiunti oggi sono assolutamente insostenibili per le risorse di cui disponiamo.
(Claudio Perlini)