Gli Usa viaggiano a ritmi incalzanti verso una sempre maggior indipendenza energetica. Ormai da anni, infatti, sul suolo americano viene prodotto lo shale gas, ovvero gas metano estratto, con particolari procedimenti, dalle argille. Si calcola che tale risorsa energetica coprirà, entro fine 2013, il 40% del fabbisogno del Paese. In Italia, al contrario, dopo anni di ricerche, il ministero per lo Sviluppo economico è giunto a una triste conclusione: nel nostro sottosuolo di shale gas non ce n’è e, anche se ci fosse, non converrebbe estrarlo. Petrolio e gas tradizionale, invece, sono presenti in grandi quantità. Come ricordava Stefano Agnoli su Il Corriere della Sera, se sfruttassimo appieno il nostro potenziale energico, avremmo risorse tali da garantirci cinque anni di autonomia. Abbiamo chiesto ragguagli in merito a Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni.
Siamo, realmente, privi di shale gas?
A dispetto di tutte le grandi discussioni che si sono fatte sul tema, la geologia italiana non è tale da rendere promettente la ricerca di idrocarburi non convenzionali. È stupefacente, invece, che siamo riusciti a inaugurare un vasto dibattito politico persino su questo. Non si capisce, infatti, perché sia necessario affermare ufficialmente che l’Italia non si impegnerà nella produzione quando questa è, semplicemente, una realtà scontata.
Pare che, tuttavia, abbiamo una ricca dotazione di idrocarburi convenzionali.
Effettivamente, stiamo sottosfruttando le risorse disponibili.
Perché?
Anzitutto, per una serie di fattori tipicamente italiani che condizionano negativamente tutte le attività produttive del nostro Paese. Mi riferisco alle lungaggini amministrative, alle inefficienze della Pubblica amministrazione e al sorgere continuo di movimenti di protesta, spesso connotati politicamente e ideologicamente, che contrastano le potenzialità estrattive a prescindere dal merito delle questioni. C’è, infine, un ultimo motivo, forse il più grave di tutti.
Quale?
Nell’Alto Adriatico ci sono delle ingenti riserve di gas. Si tratta dei giacimenti maggiormente conosciuti, studiati e analizzati in Italia perché l’Eni, a suo tempo, compì delle approfondite ricerche. Tuttavia, non vengono sfruttati perché, a fine anni ’90, il governo impose un vincolo ambientale, proibendo le estrazioni. Allora, si temeva che l’attività estrattiva avrebbe indotto il rischio di subsidenza di Venezia, ovvero dello sprofondamento del suolo.
E questo rischio esiste?
Non è escluso. Ma andrebbero effettuati studi geologici accurati. La moratoria che impose il vincolo fu introdotta dopo un dibattito estremamente generico e poco circostanziato. Da allora, oltretutto, il mondo tecnologico si è completamente rivoluzionato e varrebbe la pena capire se i rischi esistono effettivamente o se, invece, sia possibile limitare al minimo gli eventuali danni grazie alle attuali conoscenze scientifiche.
L’ammontare complessivo delle nostre risorse ci garantirebbe cinque anni di indipendenza energetica. Non sono un po’ pochi?
Cinque anni non sono pochi. Normalmente, un Paese che produce energia non utilizza di certo il 100% delle proprie riserve, ma solo una quota, per ridurre l’entità complessiva delle sue importazioni. Considerando che, attualmente, importiamo l’80% di quello che consumiamo, erodere tale quota rappresenterebbe già di per sé un ottimo risultato. In ogni caso, il fine ultimo di un’operazione del genere non si ridurrebbe all’aumento della nostra autonomia energetica.
Quali sarebbero gli altri obiettivi?
Non dobbiamo necessariamente sfruttare questi giacimenti. Semplicemente, dobbiamo rimuovere gli ostacoli affinché possano essere sfruttati, affinché si liberino delle possibilità di sviluppo, di investimenti e di occupazione.
L’importazione di shale gas dagli Usa è un’ipotesi praticabile?
Lo shale gas, una volta estratto, è gas normalissimo. Detto questo, gli Stati Uniti si stanno attrezzando per esportare per la prima volta nella loro storia del gas. Dal momento che sarebbe trasportato in forma liquida, e dato che l’Italia è dotata di rigassificatori, potrebbe trattarsi di un’opportunità interessante. Anche perché, considerando i bassi costi di produzione sul suolo americano, verosimilmente sarebbe venduto a prezzi estremamente competitivi. Basti pensare che, negli Usa, un milione di Btu (British thermal unit) viene venduto a 2-4 dollari, nell’Europa a 8-10. Ci sono degli evidenti margini perché sia chi importa che chi esporta possa trarne profitto.
(Paolo Nessi)