Mi è capitato, recentemente, e in più di un’occasione, di tornare a riflettere su cosa si debba intendere per “identità” di una regione, di un paese, di una città. Si tratta solo del complesso delle memorie, delle tradizioni orali e scritte, degli usi e dei costumi depositati nel tempo?
Io non credo. Piuttosto, sarebbe meglio chiamare con questo nome quella parte di tradizione che – in modo riconoscibile e documentabile – si dimostra in grado, oggi, di produrre luoghi, realtà sociali, eventi che si presentino in controtendenza rispetto al modello della Città Globale.
Per venire a noi, “identità” non è tutto ciò che la parola Milano evoca, ma soltanto ciò che opera oggi, in opposizione alla polverizzazione cui diamo il nome di post-modernità.
Ecco un esempio. In un momento difficile come questo, dove i segni di un impoverimento generale si vanno moltiplicando, e dove la progressiva erosione della classe media rende difficile individuare un pensiero comune, a una comune velocità di marcia per la città, appare quantomai necessario che la città valorizzi i propri luoghi-simbolo, mettendoli nuovamente nelle condizioni di parlare alla comunità cittadina comunicandole il proprio valore e la propria attualità.
Elenco alcuni di questi luoghi: il Duomo, il Castello, Palazzo Reale, l’Arengario, Piazza dei Mercanti, le Colonne di S. Lorenzo, i Giardini di P.ta Venezia, la Stazione Centrale, il Pirellone, Brera, il Politecnico. E così via. Questi luoghi possono aumentare di numero, le new entries sono tutt’altro che impossibili: a patto però che l’impianto simbolico già esistente venga salvaguardato, riletto, reinterpretato, reso funzionale a esigenze sempre nuove.
Su alcuni di questi luoghi la città sta cominciando a muoversi, come nel caso di Brera – dove finalmente s’intravede un progetto – o dell’Arengario, con l’ipotesi di un raddoppiamento del Museo del Novecento.
Ma è sul complesso dei simboli, è sulla struttura simbolica come tale che è necessario intervenire. Sono i luoghi intorno ai quali è cresciuta Milano, e dove la storia cittadina si fa più densa e avvincente: tenere desta questa storia attraverso interventi capaci di farla scorrere nuovamente, ad uso delle orecchie dei cuori e delle teste del nostro tempo è fondamentale.
Spesso, invece, questi luoghi appaiono come contenitori vuoti che finiscono per essere riempiti un po’ a caso, selvaggiamente, senza un’adeguata valorizzazione, senza che si percepisca una proposta della città ai cittadini.
Pensiamo alla zona San Lorenzo-Ticinese, così frizzante eppure così poco viva, così piena di uno stare assieme che non è uno stare assieme ma solo un andare random: ciascuno col suo gelato, ciascuno con la sua pizza, ciascuno con la sua ragazza o con la sua bottiglia.
Un errore è stato, secondo me, anche quello di spostare la sede della Regione Lombardia dal Pirellone a un nuovo palazzo più alto, ma che difficilmente potrà occupare un posto importante in una città in cui altri grattacieli stanno nascendo in un’area lì vicina, rispetto alla quale il nuovo palazzo si troverà in posizione marginale. Difficile, insomma, che in una simile foresta di giganti il nuovo palazzo della Regione possa spiccare, sia come mole sia in senso estetico.
Non che sia brutto, per carità, anzi. Ma altri, forse anche più belli – e più alti – stanno sorgendo in aree che promettono (anche se non si può mai dire) di essere più attrezzate per diventare i nuovi luoghi d’incontro, le nuove piazze, le nuove agorà cittadine. E la storia c’insegna che un simbolo del potere, per potersi affermare, deve essere non soltanto grande e grosso, ma situarsi al centro della vita cittadina.
Per il Pirellone è tutt’altro discorso. Il Pirellone è uno dei grandi capolavori dell’architettura mondiale del XX secolo, al pari della Casa sulla Cascata, della Sagrada Familia e del Guggenheim Museum di Bilbao, e non teme alcun confronto, sorgessero anche diecimila grattacieli più alti. Esso sorge al centro di uno dei punti più fortemente simbolici e drammatici della città, vero centro nevralgico di mille dinamiche diverse.
Non ho ovviamente nulla contro chi guida la nostra Regione, però questa disattenzione ai simboli è segno inequivocabile di una disattenzione culturale che va corretta. So che in pochi capiscono quello che sto per dire, e me ne dispiace: ma io non posso che ripetere che il problema della nostra città è un problema culturale – non politico o economico – e che sul suo assetto culturale si decideranno la sua vita e la sua morte.