Osservando il test di gravidanza che lentamente cambia colore, Claudia non sa se ridere o se piangere. C’è l’immensa gioia per quel figlio in grembo, atteso da anni, ma c’è anche la paura per il salto nel vuoto, e non solo emotivo, che l’arrivo di quel figlio comporterà. Claudia sa bene che il suo posto di lavoro è a rischio. E non importa quanto abbia sudato per ottenerlo, tra anni di studio, precariato e gavetta: un figlio è come una bomba a orologeria. E non solo per lei: per qualunque donna. Perché se non sarà un problema di soldi, sarà una questione di servizi. Oppure di orari e di presenze. E, troppo spesso, di pregiudizio: quello che, ancora oggi, impedisce a una madre di poter essere considerata una risorsa, invece che un costo. Claudia lo sa bene: tra tutte le sue amiche, poche sono riuscite a tenersi il lavoro. Che fossero impiegate, commesse o dirigenti, quasi tutte a un certo punto si sono trovate a dover scegliere, e non sempre liberamente. Le statistiche parlano fin troppo chiaro: che si tratti di licenziamenti veri e propri o di dimissioni, per così dire, “indotte” dalle circostanze, nel volume “La situazione del paese nel 2010” l’Istat parla di ben 800mila donne che nel biennio 2008-2009 hanno dato forfait. Si tratta dell’8,7% delle madri lavoratrici. Nel mezzogiorno, dice l’Istat, “pressoché la totalità delle interruzioni può ricondursi alle dimissioni forzate”. Ma anche nella capitale economica d’Italia non si scherza: “Non è accettabile che ancora, nel 2010, 1652 donne a Milano abbiano rassegnato le proprie dimissioni nell’arco di un anno dalla nascita di un figlio, cioè nel corso del primo anno di vita del bambino”, dice Giulio Boscagli, assessore regionale lombardo alla Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale.
“Quante di queste dimissioni – si chiede – sono frutto di una scelta libera? Quante dipendono invece da un’incapacità del nostro sistema di relazioni industriali di dar vita a una flessibilità lavorativa accettabile? Quante traggono origine dalla scarsità o inadeguatezza dei servizi per l’infanzia, dei trasporti, e di tutto quell’insieme di elementi che rendono difficile la vita di una famiglia in una metropoli”? La risposta, ça va sans dire, è già contenuta nella domanda. Per invertire la tendenza Boscagli insegue quello che lui stesso definisce “un ribaltamento culturale per cui si possa arrivare a dire che le imprese e i lavoratori condividono alcuni fondamentali interessi, che padri e madri collaborano per raggiungere il benessere familiare, che le istituzioni rinunciano all’isolamento, per fare rete tra loro e con la società”. Belle parole, ma come? “Facendo in modo che istituzioni e imprese vadano nella stessa direzione” continua Boscagli. Il primo passo verso questo obiettivo è la sottoscrizione dei cosiddetti “accordi territoriali per le reti di conciliazione”. Le prime province ad aderire sono state Mantova e Monza e Brianza, a novembre 2010. Poi sono arrivate tutte le altre: a gennaio Brescia, a febbraio Cremona, ad aprile Lecco e Bergamo, poi Como, Sondrio, Varese e Vallecamonica Sebino a giugno, infine, un paio di settimane fa, Milano e Lodi. Ma cosa c’è in questi accordi, che non li faccia rimanere solo fumose dichiarazioni d’intenti? Innanzitutto c’è l’impegno da parte delle istituzioni (Asl, Regione, Provincia, Camera di Commercio, Consigliera di Parità) a “fare rete” tra loro e con imprese, sindacati, terzo settore per creare e gestire una rete integrata di servizi e interventi a sostegno della conciliazione famiglia-lavoro: corsi di formazione, asili nido aziendali e consortili, sostegni all’imprenditorialità femminile, programmi incentivanti per l’assunzione delle madri escluse dal mondo del lavoro, solo per fare qualche esempio.
E poi ci sono le tre aree di intervento prioritarie in cui incanalare gli interventi, ovvero lavoro, formazione e servizi. Infine ci sono i soldi, senza i quali, nonostante tutta la buona volontà, non sarebbe possibile iniziare alcun tipo di percorso: “l’Intesa con il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna – spiega Boscagli – ha portato in Lombardia 6,7 milioni di euro, ai quali si sono aggiunti altri 10 milioni di provenienza regionale”. A Milano, solo per citare una delle ultime intese siglate, l’accordo mette a disposizione un insieme complessivo di 400mila euro: “Questi finanziamenti – dice l’assessore – non possono risolvere tutti i problemi della conciliazione, ma offrono la possibilità di far partire alcune sperimentazioni. Spetterà a tutti i soggetti promotori individuare fabbisogni e priorità per un territorio, come quello milanese, assai variegato in termini di settori produttivi, di dimensioni aziendali, di caratteristiche strutturali”. In parole povere, i fondi stanziati dalla Regione Lombardia serviranno a dare quella spinta in più alle aziende, grandi o piccole che siano, senza la quale magari non verrebbe loro in mente di creare servizi comuni per i dipendenti, o di programmare campagne informative e di sensibilizzazione, che forse sarebbe meglio chiamare “educazione”, per far capire, ad esempio, che una donna in congedo di maternità non è un costo aziendale, se non altro perché l’indennità la paga l’Inps e non l’azienda. Forse Claudia non si troverà, come alcune delle sue amiche, davanti a un direttore del personale che le offrirà qualche spicciolo – un patrimonio, agli occhi di chi si trova a dover pianificare le spese che un figlio appena nato, specie se il primo, comporta – in cambio delle dimissioni, o che le ventilerà un trasferimento fuori sede, o ancora che, lamentando la sua “scarsa partecipazione all’attività dell’azienda”, le negherà l’orario part-time. O forse sì, perché la strada da percorrere è lunga e tortuosa. Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare.