Sembra la teoria del caos, quella in base alla quale il matematico e meteorologo statunitense Edward Lorenz si chiedeva nel 1963: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”. Ebbene: può una catena di chiusure di aziende in crisi in Cina provocare una manifestazione di piazza senza precedenti a Bruxelles? Una manifestazione di protesta che per la prima volta ha visto sfilare, uniti, davanti alla sede della Commissione europea industriali e operai? Può: è la globalizzazione. Ed è la digitalizzazione. Due fenomeni irreversibili ma pericolosissimi, visto come stanno espandendosi, senza una regia e senza un pensiero.
Gli industriali e i lavoratori siderurgici che dieci giorni fa hanno sfilato a Bruxelles per protestare contro il “dumping” che la Cina sta facendo in Europa vendendo il suo acciaio sottocosto ai compratori europei fanno riscontro con i sei milioni di operai cinesi, dipendenti delle “fabbriche zombie” – come le chiamano laggiù – che producono tra le altre cose quest’acciaio da vendere sottocosto e che rischiano di essere licenziati. Proprio perché, essendo sottocosto, quelle vendite non bastano a coprire i costi di produzione e lo Stato non può continuare ad ampliare il suo deficit per coprirne le perdite.
Sei milioni di disoccupati in più sono tanti perfino per la grande Cina. Solo nella siderurgia la capacità produttiva cinese, oggi pari a 1,14 miliardi di tonnellate annue, è eccedentario per 327 milioni. Per dare un ordine di grandezza, la capacità dell’Ilva è di circa 35 milioni di tonnellate. Come dire che in Cina ci sono 10 Ilva di cui neanche i cinesi sanno cosa fare.
E nell’industria statale cinese non è soltanto l’acciaio ad avere molta più capacità produttiva di quante merci possano essere collocate, sia in patria che all’estero. Secondo una magistrale corrispondenza dalla Cina di Guido Santevecchi, pubblicata sul Corriere, sono altrettanto eccedentarie anche l’industria cementiera, dell’alluminio, della carta, del vetro, chimica, cantieristica navale, della raffinazione petrolifera.
La risposta dell’Occidente a un simile scenario si chiama Industry 4.0, la “quarta rivoluzione industriale”. Resa possibile dalla profonda compenetrazione tra Internet, robotica, sensoristica e produzione industriale tradizionale. Il cosiddetto “Internet delle cose” che mette in rete le macchine e le fa interagire senza aver bisogno dell’intervento umano.
Infatti: se la prima rivoluzione industriale è quella che ha meccanizzato le attività manuali tradizionali; se la seconda è quella che le ha motorizzate dapprima con il vapore e poi con l’elettricità; se la terza è quella che le ha informatizzate; la quarta le emancipa dall’intervento gestionale umano, rendendole in qualche modo “intelligenti”.
All’ultimo World Economic Forum di Davos non si è parlato d’altro: di quanti posti di lavoro saranno distrutti dall’Industry 4.0. Ed è riecheggiato il grido d’allarme dell’astrofisico americano paraplegico Stephen Hawking: “Tutti potranno vivere una vita più bella, se la ricchezza prodotta dalle macchine sarà condivisa tra tutti; o al contrario la maggior parte delle persone finirà nella miseria più nera se i proprietari delle macchine intelligenti vinceranno la loro battaglia di lobby contro la redistribuzione di questa ricchezza”.
La classe politica occidentale sembra vivere in un’altra epoca. Inconsapevole di un futuro che è già scritto, che è già qui. Insegna il professor Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica alla Statale di Milano, che nel distretto industriale tessile di Islamabad, in Pakistan, uno dei più “economici” del mondo in termini di costo del lavoro, la popolazione operaia attiva potrebbe già essere decimata (letteralmente: ridotta, cioè, da 100 a 10) se valesse la pena investire in quei capannoni malconci per installarvi le macchine automatiche di nuova generazione. Quegli operai guadagnano ancora così poco da non rendere sempre e del tutto convenienti i nuovi impianti, ma tra poco l’equilibrio cambierà e la convenienza ci sarà. E il lavoro umano diverrà troppo costoso perfino nel derelitto Pakistan.
E la classe politica occidentale? Parla di welfare, di salario minimo, di movimenti migratori e di energie rinnovabili come se non fossero tutte materie già attraversate – e presto sconvolte – dalla nuova, distruttiva rivoluzione industriale.
C’è un corollario italiano immediato, a questo scenario, ed è appunto l’Ilva. A chi converrà comprarsela, in un simile contesto? Forse la risposta è solo una: ai cinesi. Agli investitori cinesi per i quali produrre acciaio in patria non ha più senso, ma produrlo diecimila chilometri più vicino ai mercati di sbocco forse sì. E non a caso, uno dei pochi “pretendenti” dell’Ilva ad aver avanzato – secondo le indiscrezioni che trapelano dal ministero – una manifestazione d’interesse per l’intero gruppo è proprio il fondo cinese P&C Industry Fund Management Partnership di Shenzen. Sarà un caso?