Gli studenti, si sa, in genere non amano Verga. Che difficoltà far apprezzare la prosa corale dei Malavoglia e anche il racconto più tradizionale di Mastro don Gesualdo. Forse hanno più fortuna le novelle, quelle famose di Vita dei campi, come Fantasticheria, Rosso Malpelo, La Lupa, tutte di ambiente siciliano. Tra le meno conosciute ve ne sono anche alcune ambientate a Milano, dove Verga visse per circa un ventennio, dal 1872 al 1893, pur con frequenti ritorni in Sicilia. La raccolta delle novelle milanesi, pubblicata dall’editore Treves nel 1883, ha per titolo Per le vie, espressione in cui è chiara l’allusione all’idea di vagabondaggio, alla vita come itinerario incessante e doloroso. La ricerca di Verga non è in chiave strettamente sociale, piuttosto è uno studio d’ambiente, quello del centro cittadino, osservato con simpatia e quello della campagna circostante, vista come luogo di idillio. Le classi più umili, colte nel contrasto con quelle borghesi e aristocratiche, sono ben descritte nella loro “gaiezza dolorosa”, soprattutto là dove è presente il tentativo di riprodurre la parlata milanese. Verga non la conosceva e perciò si limita a inserire locuzioni dialettali di quando in quando: “la Luisina”, “il Basletta”, “il Gaina”, “far San Michele”. La novella Primavera racconta la storia di un sogno d’amore tra il giovane musicista Paolo e una graziosa modista, “la Principessa”, la loro conoscenza avvenuta in Galleria, le domeniche trascorse lungo i bastioni, le economie che entrambi facevano per scambiarsi piccoli doni. Sono pochi mesi: dalla primavera all’autunno la loro storia si esaurisce. Paolo parte, attirato da un buon contratto.
Da lontano s’udiva la musica del caffè Gnocchi, e si vedevano illuminate le finestre rotonde del Teatro Dal Verme. Le stelle sembravano tremolare in un azzurro cupo e profondo; qua e là, nel buio dei viali e fra mezzo agli alberi, luccicava una punta di gas, davanti alla quale passavano a due a due delle ombre nere e tacite. Paolo pensava: “Ecco l’ultima sera!”.
Ben più triste e definitivo l’addio di un’altra storia d’amore nella novella dal titolo X. Il protagonista narra di aver incontrato all’ultimo veglione della Scala una donna mascherata che gli aveva fatto battere il cuore, quando i loro occhi si erano incrociati. La smarrisce tra la folla, poi la rivede per caso in Galleria, la segue. Ma quando lei gli si svela e gli racconta la sua piccola storia, una di quelle storie che l’angelo custode ascolta sorridendo, lui, appagato nella sua curiosità, non più attratto dal mistero, forse spaventato dalla fiducia di quell’amore così sincero che lei gli aveva mostrato, benché consapevole di privarsi di un tesoro, non si fa più vedere. Poco tempo dopo riceve una lettera listata a lutto, con l’invito, da lei stessa vergato, a recarsi al cimitero per darle l’ultimo addio su una tomba: il segno per riconoscerla è una scritta con la sola lettera X.
Sono storie scritte con leggerezza, non certo con la drammaticità delle novelle di Vita dei campi o di Nedda, ma in esse si scorge la vena del grande narratore che sta lavorando al suo capolavoro, I Malavoglia. Forse gli anni milanesi, con l’aria che vi si respirava, nei salotti della nobiltà, nei sogni degli Scapigliati, nella tenacia dell’editore Treves, favorirono in Verga quell’attitudine verista che è la cifra della sua arte. La favorirono forse perché la depurarono dai filtri intellettuali con cui egli dominava una materia più vicina a lui, più densa di memoria, come nelle storie ambientate in Sicilia. In ogni modo dobbiamo credergli, quando afferma in una lettera a Torraca: I miei bozzetti sono proprio gli schizzi e le prove con cui preparo alla mia maniera i quadri.
Sono storie scritte con leggerezza, non certo con la drammaticità delle novelle di Vita dei campi o di Nedda, ma in esse si scorge la vena del grande narratore che sta lavorando al suo capolavoro, I Malavoglia. Forse gli anni milanesi, con l’aria che vi si respirava, nei salotti della nobiltà, nei sogni degli Scapigliati, nella tenacia dell’editore Treves, favorirono in Verga quell’attitudine verista che è la cifra della sua arte. La favorirono forse perché la depurarono dai filtri intellettuali con cui egli dominava una materia più vicina a lui, più densa di memoria, come nelle storie ambientate in Sicilia. In ogni modo dobbiamo credergli, quando afferma in una lettera a Torraca: I miei bozzetti sono proprio gli schizzi e le prove con cui preparo alla mia maniera i quadri.