Braccio di Ferro e Bruto litigano sullo schermo a cristalli liquidi del living, mentre nella casa fervono i preparativi mattutini. C’è chi ha bisogno del bagno, perennemente occupato nei momenti meno opportuni, chi con un po’ di indecisione fruga nei cassetti in cerca di una maglietta, chi si attarda sul grande tavolo al centro della stanza sbocconcellando i resti della colomba di Pasqua. Siamo a Milano, in via Betti, civico 62, nel centro di un quartiere residenziale, il Gallaratese, sorto a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 durante l’espansione della città verso le periferie.
Il centro commerciale Bonola è a due passi, così come la fermata della metropolitana. L’appartamento, al piano terra, è grande, sono 170 metri quadrati, veri, calpestabili: tre camere da letto doppie, due singole, tre bagni, uno studio con bagno, una lavanderia e un grande living che ingloba salotto e cucina. Tutto nuovo, appena ristrutturato e arredato di tutto punto. Fuori c’è persino il giardino, con tanto di orto. Sul citofono i cognomi di due famiglie e una targhetta: “Casabetti”. Non “Casa Betti”, proprio “Casabetti”.
E non è un errore: questa, dal 18 aprile, è la nuova casa di tre donne e cinque uomini tra i 29 e i 53 anni, otto “ragazzi” che hanno lasciato il nido familiare per andare a vivere da soli. In comune hanno il loro quartiere, il Gallaratese appunto, nel quale sono cresciuti, e i loro problemi cognitivi e comportamentali. In parole povere, sono disabili di quelli tradizionalmente considerati “gravi”. Eppure, con una rete di sostegno adeguata, ce la possono fare a condurre una vita autonoma, indipendente dai genitori. Che, inevitabilmente, prima o poi verranno comunque a mancare.
La particolarità di Casabetti, una delle circa 150 comunità alloggio esistenti in Lombardia, in cui vivono più di un migliaio di persone con disabilità, è proprio questa: essere stata pensata “durante”, per il “dopo”. “Da tempo lavoravamo sul tema del ‘dopo di noi… durante noi’ con azioni di sperimentazione di vita autonoma e di sostegno alle famiglie”, spiega David Scagliotti, presidente della cooperativa sociale Azione Solidale, che insieme all’Associazione Presente e Futuro e al Consorzio Sis (Sistema imprese sociali) ha dato vita al progetto, grazie anche al sostegno di chi ha voluto donare qualcosa: “La parrocchia Santi Martiri Anauniensi ci ha messo a disposizione questi locali, che abbiamo ristrutturato a nostre spese e grazie alla collaborazione di chi ha voluto contribuire dandoci competenze e materiali: Sony per l’elettronica, Ikea per gli arredi, Bennet per le stoviglie e le derrate alimentari, l’architetto Marco Signorelli di Archè artefice del progetto” spiega Scagliotti. “Si tratta di una sperimentazione che si discosta dalle comunità alloggio tradizionali in quanto si è voluto restare nel territorio, dare autonomia alle persone con disabilità mantenendole però nel loro contesto sociale di appartenenza, vicino ai familiari, agli amici. Alcuni degli ‘inquilini’ della casa si conoscevano già”.
L’integrazione nella vita sociale del territorio è uno degli obiettivi di quel processo evolutivo che, spinto dal Terzo settore, sta iniziando ad attecchire nella cultura sociale.
Le giornate, nelle comunità alloggio, sono scandite dai normali ritmi di qualunque altra casa: la sveglia, la colazione, la cura personale, il tempo libero, il pranzo e la cena, la musica, la tv, le chiacchiere e la noia. L’unica differenza è che invece di andare al lavoro di giorno si va al Centro diurno, accompagnati dal pullmino. E che l’economia domestica è gestita dagli operatori, sempre presenti, che assistono gli inquilini anche per le cure personali: la pulizia, le medicine, il vestirsi. Per il resto, è una casa come tutte le altre. Con tanto di vicini: “Si tratta di un vero e proprio condominio” spiega Scagliotti: “qui sopra vivono due famiglie che hanno scelto di vivere in questo contesto, e accanto c’è una comunità per minori. Facciamo regolarmente delle riunioni per la gestione degli spazi e dei servizi comuni”.
Le comunità alloggio come Casabetti sono la risposta a un problema che diventa sempre più pressante man mano che la popolazione invecchia: quello di genitori ormai anziani che si sono sempre occupati di figli con disabilità e non riescono più a farlo. Fino a pochi anni fa l’unica soluzione possibile era il ricovero in una delle 77 Residenze sanitarie per disabili presenti in Lombardia, che oggi accolgono poco più di 3.600 persone. Negli ultimi anni il Pirellone ha affrontato un processo di semplificazione del sistema di offerta residenziale per le persone con disabilità, graduandolo per livello di autonomia e complessità sanitaria: accanto alle Rsd, destinate ai casi più gravi, sono comparse le Comunità socio sanitarie accreditate e le Comunità alloggio, gestite di norma dal terzo settore in convenzione con gli enti locali, entrambe rivolte a quelle persone i cui livelli di autonomia e capacità relazionali sono tali da rendere possibile la convivenza in un piccolo gruppo. Oggi, che le capacità residue vengono valorizzate nell’ottica di una sempre maggiore uguaglianza e partecipazione alla vita sociale, in Lombardia vivono stabilmente nelle oltre 280 tra Comunità socio sanitarie e Comunità alloggio più di 2.100 persone con disabilità che hanno scelto di risiedere stabilmente con altri disabili.
La parola chiave è proprio “scelta”, e non solo da parte dei diretti interessati: “Si tratta di un passo non semplice, ma importante da parte dei genitori – conclude il presidente di Azione Solidale – che hanno sempre cercato di proteggere i figli disabili. E che devono decidere di lasciarli andare e permettere che anche altri possano gestire la loro vita quotidiana e il loro futuro”.