Nel suo discorso in occasione della festa di S. Ambrogio, il cardinale Scola ha posto un problema di fondo che riguarda la società contemporanea: nel corso della seconda parte del XX secolo, le democrazie liberali tendono a scivolare verso una nuova condizione, che assume implicitamente ma decisamente la non esistenza di Dio.
Un modello che si rifà, in ultima istanza, a quello francese della laicità: è nel paese in cui Luigi XIV affermava “lo stato sono io”, che la rivoluzione – condotta contro il re e contro la Chiesa – ha portato a fondare direttamente sullo stato – inteso come la comunità dei cittadini – la stessa vita comune. Negli ultimi decenni, le trasformazioni intervenute nelle democrazie e nel capitalismo contemporanei hanno spinto nella medesima direzione. C. Taylor, uno dei più importanti filosofi contemporanei, definisce come “l’età secolare” questa nuova configurazione, che consiste nel passaggio da una società in cui la fede in Dio era data per scontata a una in cui viene considerata come un’opzione tra le altre, e spesso non come la più facile, nè felice, da abbracciare. Di fatto, nelle strutture culturali del nostro tempo, nascosto dietro il velo della tolleranza, si rafforza il dogma della “equivalenza dei significati”: dato che tutto è opinione soggettiva, anche credere in Dio rientra in questo quadro. Si può benissimo credere, ma si tratta di una scelta privata. Qualcosa che riguarda la propria coscienza, senza implicazioni dirette sulla sfera pubblica.
La progressiva affermazione di questo modello produce almeno due conseguenze.
La prima è l’eliminazione del riferimento a Dio che stava dietro la gran parte delle costituzioni moderne. Il caso più evidente è quello americano, dove Dio, espressamente nominato, costituisce il riferimento comune dei costituenti, i quali, pur appartenendo a chiese diverse, erano pur sempre tutti cristiani. Tale mutamento non è però indolore. La sparizione di Dio determina la trasformazione della natura stessa delle democrazie avanzate, che finiscono per essere prese in una morsa pericolosa.
Da un lato, l’accartocciarsi di una soggettività che, pretendendosi completamente autofondata, si ritrova disorientata tanto a livello esistenziale quanto istituzionale. Pretendere di rinunciare a riferimenti re-ligiosi comuni espone al rischio di uno s-legamento radicale che finisce per frammentare sia la struttura della persona – cioè la sua capacità di vivere in base ad un senso – sia il tessuto sociale e istituzionale – dove si assiste a una deriva proceduralista sempre meno capace di riprodurre le proprie basi etiche.
Dall’altro, sul piano sistemico, ciò lascia campo libero al pieno dispiegamento della tecnica la quale surrettiziamente si arroga i caratteri tradizionalmente attribuiti a Dio (e che negli ultimi secoli erano stati riferiti al re, allo stato, alla classe, al partito): anche se facciamo fatica a riconoscerlo, in realtà il sistema tecnico, ormai invasivo di ogni realtà della vita, disponendo il mondo ha la pretesa di essere onnipotente, vero; e, in un futuro non lontano, capace persino di arrivare a garantire l’immortalità. Tutto è un’opinione, compresa la fede di Dio; ma se una cosa funziona è, per definizione, certa.
La seconda conseguenza del modello dell’equivalenza generalizzata è la reazione che la posizione dominante finisce per determinare, nella forma di un risorgente fondamentalismo. Come dire che la religione, allontanata dalla porta, rientra dalla finestra. Il fondamentalismo può essere pensato come la reazione scomposta allo stato di cose nel quale Dio viene espulso. Dato che, fino a prova contraria, la domanda di senso e le grandi tradizioni religiose sono tutt’altro che rimosse, ne deriva che la cultura dominante della tolleranza, pretendendo di eliminare la religione dalla sfera pubblica, finisce per scatenare reazioni uguali e contrarie. Ciò avviene in tutto il mondo, all’interno delle diverse confessioni – ci sono fondamentalisti cristiani, ebraici, induisti, musulmani – e nel rapporto tra religioni e la forma sociale oggi dominante. Basti pensare alle convulsioni del mondo arabo, dove la contaminazione con la modernità suscita forti conflitti: interi settori di quell’ambiente religioso – che non ha alle spalle il travaglio della modernità – si oppongono strenuamente a quello che considerano un rischio mortale per la propria sopravvivenza.
L’intervento del card. Scola è dunque importante, poichè propone alla riflessione generale un punto che ancora viene rimosso: come ormai si comincia a riconoscere nel dibattito internazionale più avanzato, i problemi del nostro tempo hanno infatti strettamente a che fare con lo slittamento denunciato dal vescovo di Milano. Ciò che stiamo vivendo – inclusa la grande crisi che stiamo attraversando – è riconducibile a questa mutazione e agli effetti che essa produce sulla vita sociale e sull’esperienza umana. Si può dire che quella individuata dal card. Scola sarà una delle questioni centrali, che impegnerà buona parte del XXI secolo.
Da questo punto di vista, il discorso che il cardinale ha proposto alla sua città, invitandola a guardare in faccia tale questione, è davvero un dono prezioso. Credo che sia a tutti chiaro – Scola compreso – che la soluzione non è dietro l’angolo. Ma riconoscere il problema è già un enorme passo in avanti.
In concreto ciò ha almeno tre implicazioni.
In primo luogo, se i termini della questione sono finalmente correttamente posti, allora possiamo sperare di non assistere allo scatenamento della polemica tra gli zeloti dei due “schieramenti”: quello laico e quello religioso. Il punto sollevato dal Cardinale di Milano guarda all’idea di un bene comune: i problemi della condizione attuale interrogano tutti, credenti e non credenti.
In secondo luogo, mi pare ci siano le condizioni per considerare il discorso del cardinale come una critica costruttiva al nostro vivere insieme. È dal cuore stesso dell’Europa cristiana che ha preso il via quella modernità che, anche attraverso il processo di secolarizzazione, raggiunge oggi un punto di avanzamento tale da richiedere una nuova riflessione, perché le categorie del XIX e del XX secolo non bastano più. La sfida è aperta.
In terzo luogo, per le comunità cristiane (parlando a e di Milano) il discorso del cardinale è prima di tutto un invito a sfuggire la tentazione del rinserramento in quella che si può chiamare la “sindrome del castello assediato”, che comporta sempre un inconfessato senso di inferiorità nei confronti della cultura dominante. Siamo davvero tutti sulla stesa barca. Ai credenti di oggi e di domani tocca l’arduo ma esaltante compito di trovare le vie per costruire un nuovo equilibrio che, senza nostalgie per un passato che non ritornerà più, sia però capace di formulare proposte positive per affrontare i problemi della nostra vita insieme. A partire, appunto, da una “riabilitazione” di Dio e della religione. Ciò richiede vivere le sfide del nostro tempo con lo stesso coraggio, intelligenza, fede e umiltà dei grandi Padri che ci hanno preceduto.