Carlo G. Lacaita e Pier Paolo Poggio (a cura di)
Scienza, Tecnica e Industria nei 150 anni di Unità d’Italia
Jaca Book – Milano 2012
Pagine 279 – Euro 20,00
Poco più di un anno fa, per la precisione il 24 gennaio 2011, proprio all’inizio dell’anno dedicato alle celebrazioni dell’Unità d’Italia, si tenne a Brescia il convegno Scienza, Tecnica e Industria nei 150 anni di Unità d’Italia, del quale questo libro riporta gli atti raccolti a cura di Carlo G. Lacaita, direttore della Associazione per la Storia delle Scienza e della Tecnica in Italia nell’età dell’industrializzazione (ASSTI), e di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti di Brescia.
Il convegno si proponeva, nel ricordare quanto scienza e tecnica abbiano contribuito a quel complesso processo che è stata l’unificazione del nostro paese, di fornire «materiale e spunti di riflessione per un rinnovato incontro tra cultura e industria, indispensabile per affrontare la globalizzazione e le nuove sfide imposte dalla crisi economica».
Leggendo i contributi di Ilaria Barzaghi, Giuseppe Bertagna, Luigi Cavazzoli, Emilio Chirone, Carlo G. Lacaita, Vittorio Marchis, Adriano Paolo Morando, Stefano Morosini, Elisa Petergnani, Luigi Pepe, Guglielmina Rogante, Marino Ruzzenenti, Ornella Selvafolta e Andrea Silvestri si ha l’impressione che il convegno, e lo stesso libro che ne raccoglie gli atti, per dare miglior risalto ai temi realmente trattati avrebbero dovuto contenere nel loro titolo, oltre ai termini scienza, tecnica e industria, anche parole quali scuola, istruzione pubblica, formazione.
Diciamo ciò non per polemica o per un giudizio negativo sul libro, che anzi è tutto assai interessante, quanto piuttosto perché con il titolo che gli è stato assegnato il libro è forse meno immediatamente in grado di sollecitare l’attenzione non solamente del mondo della tecnica e dell’industria, ma anche di quello dell’educazione, per il quale le riflessioni e analisi svolte dagli autori ci sembrano altrettanto, se non addirittura più utili.
In effetti da quasi tutti gli interventi si riceve la testimonianza che fra i due mondi della tecnica e della scuola, che nei primi decenni dell’Unità d’Italia i «padri della patria» avevano cercato di mettere in proficua comunicazione, intuendo che ciò era una delle chiavi di volta per far entrare l’Italia nel novero delle nazioni moderne, si è invece consumato, col passare del tempo, un progressivo «grande divorzio», che è una delle cause, e certo una delle non meno importanti, dell’attuale crisi di identità e di credibilità del nostro paese. In effetti già immediatamente prima dell’Unità lo Stato Sabaudo si era fatto carico di inserire nel primo quadro legislativo sull’Istruzione Pubblica (legge Casati del 1859), a livello medio, l’avvio delle Scuole Tecniche e degli Istituti Tecnici, e a livello superiore quello dei Politecnici di Torino e di Milano.
Queste «scuole» statali, alle quali si affiancarono, in un rapporto esemplare di sussidiarietà, numerose iniziative di matrice laica e religiosa, nel campo degli istituti tecnici e professionali, sono state per quasi un secolo la base formativa dalla quale l’industria ha tratto i suoi migliori operai specializzati, tecnici e ingegneri (nel libro oltre a esperienze già piuttosto note quali i Politecnici, il Museo Industriale di Torino, la “Società di Incoraggiamento arti e mestieri” e “L’Umanitaria” di Milano, vengono descritte anche altre esperienze interessanti, ma meno conosciute, quali la “Scuola di disegno per operai” di Monza, l’“Istituto d’Arti e Mestieri di Fermo”, la “Scuola industriale di Vicenza”).
Ciò avvenne grazie a una sintonia e una collaborazione fra i due mondi dell’industria e della formazione che scaturiva da un sentire comune fra molti degli artefici del Risorgimento, che la prosperità della nazione e la promozione dei ceti popolari si costruisse sulla capacità di sviluppare il sistema industriale, anche tramite la formazione e l’educazione. Questa sintonia, che poteva in alcuni casi tradursi in forme dirette di supporto alle «scuole» di vario ordine e grado (come quando l’industriale chimico Carlo Erba finanziava la nascita di un nuovo istituto e laboratorio di elettrotecnica al Politecnico di Milano, o come quando l’industriale laniero Alessandro Rossi finanziava la nascita della “Scuola industriale di Vicenza”), divenne una consapevolezza diffusa (pur tra tanti contrasti e opposizioni), a livello sociale, politico e amministrativo.
Poi, però, proprio a partire dagli anni del boom economico, quando sembrava che l’Italia si fosse ormai stabilmente inserita nel novero delle nazioni più industrializzate, è iniziata una progressiva deriva (figlia probabilmente della pesante cappa ideologica di quegli anni) che ha rotto il rapporto di sinergia fra scuola e industria. Scrive per esempio Giuseppe Bertagna all’inizio del suo intervento: «Fino a qualche anno fa l’auspicio di un rapporto sinergico tra scuole e imprese in funzione formativa era non solo temuto, ma addirittura tabuizzato. L’impresa luogo del profitto, dell’alienazione e dello sfruttamento era ritenuta il contrario della scuola, luogo della gratuità, della realizzazione di sé e del rispetto della persona […]; per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni l’idea che il lavoro e l’impresa siano e possano essere ritenuti luoghi formativi strategici è osteggiata quando è compresa […] o addirittura incompresa, perché mancano le categorie pedagogiche per pensarla.»
Come ricostruire questo rapporto?
Il libro non fornisce soluzioni automatiche, per un problema che richiede peraltro di essere risolto rapidamente, ma certo la riflessione su un passato nel quale, specie in una prospettiva storica capace di valorizzarne gli aspetti positivi, si ritrovano tanti utili esempi, può essere un utile passo.
A cura di Gianluca Lapini
(Ingegnere elettronico. Ex ricercatore presso CISE e CESI Ricerca S.p.a.)
© Pubblicato sul n° 44 di Emmeciquadro