Realismo versus positivismo
Forse gli scienziati che lavorano oggi ai grandi o piccoli progetti di ricerca in tutto il mondo non si pongono la questione nei termini dell’alternativa secca posta dal titolo di questo primo numero del 2012; ma è proprio quel «versus», quel dilemma, che può determinare il buon esito di un programma di ricerca.
Il progressivo allontanamento della pratica scientifica da posizioni di sano realismo si manifesta in più modi. Nella scelta dei temi di ricerca, che spesso segue una ritualità ritmata dal susseguirsi delle pubblicazioni e dai rimandi incrociati tra le stesse, a discapito delle domande e delle curiosità che possono irrompere nell’esperienza diretta specie dei giovani ricercatori. Così frequentemente l’indagine non parte dalla realtà ma da ciò che della realtà è riportato «in letteratura», come si dice con un gergo di derivazione anglosassone ma che in italiano suona piuttosto strano.
Ben diverse sono le esperienza di molti scienziati riproposte nella sezione Scienza&Storia. Come quella di Jérôme Lejeune che è arrivato alla scoperta della causa della sindrome di Down lavorando presso la clinica pediatrica all’Università di Parigi e osservando una connessione fra le caratteristiche di un individuo e i suoi dermatoglifi (i solchi sulla superficie delle mani).
Rilanciare il realismo significa non rinunciare al desiderio che muove i primi passi di ogni scienziato (e successivamente almeno gli inizi di ogni ricerca) e cioè la possibilità intravista di entrare in dialogo con la realtà naturale e di coglierne comportamenti, ragioni e senso.
Si tratta, più profondamente, come emerge dal denso contributo Le cose piuttosto che gli oggetti di Tito Arecchi, di «riportare in vigore l’ontologia come propria dell’agenda scientifica». E questo non per trasformare gli scienziati in pseudo filosofi e neppure per «aggiungere» alla conoscenza scientifica delle note a margine dal sapore vagamente “umanistico”. Mettere in primo piano il realismo e puntare all’ontologia fa bene alla scienza, contribuisce a darle lo spessore di autentica «conoscenza» e non di semplice descrizione operativa dei fenomeni; e le fa bene anche sul piano dei risultati, perché – come osservava Max Planck – «anche nel raccogliere il materiale (scientifico) la preveggente e presenziente fede in nessi più profondi può rendere buoni servigi. Essa indica la via e acuisce i sensi».
Se questo è vero sul versante della ricerca, ancor più lo è dal punto di vista educativo. Che la nostra scuola abbia bisogno di una cura intensiva di realismo è un’osservazione di difficile smentita; e che le discipline scientifiche possano costituire uno strumento favorevole almeno per iniziare la cura dovrebbe risultare abbastanza evidente, anche dagli esempi che verranno illustrati e commentati via via nella sezione Scienz@Scuola.
Forse è meno condivisa la consapevolezza che l’alternativa è un positivismo di ritorno.
Quello che certamente non sempre si manifesta nelle forme grossolane del positivismo ottocentesco ma– come denunciava Benedetto XVI nel discorso del 22 settembre 2011 al Bundestag di Berlino – che «comprende la natura in modo puramente funzionale» e la riduce a «un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti», trasportandoci in un «mondo autocostruito» che «assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre».
La difficoltà a superare le insidie della pretesa positivista e a tenere la barra del timone sempre ben fissa sulla realtà forse sta nel fatto che dietro la parola realismo ne spunta un’altra ancor più impegnativa e scomoda: la parola «verità».
Se vogliamo che i nostri studenti, e noi con loro, tornino «a spalancare le finestre» dobbiamo preoccuparci di – e attrezzarci per – educare a un atteggiamento e a un metodo che aiuti a puntare lo sguardo positivamente (quindi non positivisticamente!) sulla verità delle cose e non sulla apparenza degli oggetti.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 44 di Emmeciquadro