Il testo di una bella canzone di Ron, di qualche anno fa, recitava così: “E non abbiam bisogno di parole per spiegare quello che è nascosto in fondo al nostro cuore, ma ti solleverò tutte le volte che cadrai (…)”. Una canzone d’amore, di gran successo, che può essere dedicata all’Italia colpita da vari vulnus, primo fra tutti quello, devastante e che sembra non aver fine, dello Stato debitore sine die nei confronti delle imprese. Lo Stato non onora i suoi debiti e poi iscrive nella lista dei morosi quei cittadini imprenditori, ai quali non dà la possibilità di pagare le tasse e i propri dipendenti. Un caso di studio di enorme portata, forse unico nella storia moderna e post-moderna (dal crollo del Muro in avanti, per intendersi) degli Stati nazionali. Lo dico così, un po’ a naso, ma non credo di sbagliare, francamente.
Davvero non abbiam (più) bisogno di parole. Qualche dato messo in fila può aiutarci, casomai. Tra il 2008 e il 2012 sono più che raddoppiati (+114%) i fallimenti delle imprese vittime dei ritardi o dei mancati pagamenti da parte dei committenti pubblici e privati. Fonte più che attendibile: la Cgia di Mestre, un “cane da guardia” delle imprese e dell’economia reale di tutto rispetto. Ebbene, la Cgia stima in 120 miliardi di euro la mole di debiti arretrati che lo Stato ha accumulato negli anni nei confronti delle imprese fornitrici di beni e servizi. E non abbiam (più) bisogno di parole.
Non basta. Se si analizzano gli effetti economici dei mancati pagamenti, si scopre che, dall’inizio della crisi alla fine del 2012, sono fallite per mancati pagamenti oltre 15.000 imprese. Ora, se le imprese fallissero a causa del mercato, questo sarebbe un test positivo per il capitalismo italiano, perché il mercato è sano quando immette capitali e imprese sane e forti, espellendo tutto ciò che non si confà a questi standard qualitativi di eccellenza e di utilità marginale. Non farebbe una grinza, sul piano macro e macroeconomico. Ma qui ci troviamo a un altro livello, che rende il caso Italia un caso di studio: le imprese falliscono perché, servendo lo Stato con i propri servizi, non ricevono il dovuto compenso. Si chiama morosità e viene costantemente e sistematicamente attribuita ai singoli cittadini e alle imprese senza alcuna pietà e distinzione, mentre lo Stato, essendo l’attore decisivo nel giudizio su se stesso, può essere esentato (da se stesso) all’adempimento della prima regola in economia: pagare i servizi ricevuti.
Dunque, un circolo vizioso che, da un lato, mette sotto schiaffo lo Stato, ma dall’altro pone le condizioni per cui lo Stato, dovendo decidere di se stesso e dei suoi comportamenti evidentemente pubblici, può fare il bello e il cattivo tempo. Neanche il Leviatano di Hobbes avrebbe potuto tanto. Ecco il punto dolente e disgregante dell’intero sistema-Paese.
A questo punto, domandiamoci: che ne è del Welfare State in un contesto in cui lo Stato, da un lato, non paga e, dall’altro, brucia le risorse migliori per alimentare la sua macchina? Un altro cortocircuito non da poco. In sostanza, per un verso lo Stato è debitore, per un altro è eversore e disgregatore di se stesso, e ciò perché, alimentando solo se stesso, manda a gambe all’aria il Welfare State. Cioè la sua forma storicamente determinata da 40 anni a questa parte. Aveva allora ragione il teorico anarco-libertario americano Albert Jay Nock? Lo Stato è realmente il “nostro nemico”?
Da notare, infine, che Bankitalia, nel suo ultimo bollettino economico, indica che, se venisse attuato un efficace piano di rientro della morosità della Pa. attraverso l’attuazione del provvedimento sui pagamenti dei debiti della Pa, il Pil potrebbe crescere. Perché le imprese potrebbero accantonare la liquidità ricevuta per scopi precauzionali e tornare a investire e a innovare.
Sono fatti, nudi e testardi. Ormai non abbiam (più) bisogno di parole.