I nodi vengono al pettine. Ossia, i difetti sistemici di un’integrazione europea forte in un insieme di sistemi nazionali di banche capitalistiche deboli iniziano a farsi evidenti. Il mito della finanza bancaria italiana sana perché arretrata viene meno, via via che passa il tempo e che l’eccesso di patrimonializzazione imposto dall’Europa, che immobilizza capitale e quindi lo rende più costoso, inizia a essere mortale. Le regole di Basilea altro non sono che un escamotage per non riformare le banche.
I bilanci di queste sono gravate: da immensi costi del retail, derivati da carenze manageriali spaventose e inenarrabili; dal peso degli incagli e delle sofferenze generate dalla crisi industriale e dall’incapacità operativa dei gestori bancari che non conoscono le imprese e ne affrontano i problemi con arzigogolati meccanismi tecnologici e non più con il contatto diretto con l’imprenditore e il cliente, sia esso famiglia o impresa; dal peso delle perdite per la finanza derivata spesso esercitato anche sulle banche, ora che il vento è girato e non si riesce più a scaricarne i fallimenti sulla clientela e tali fallimenti aggrediscono direttamente le banche, in primis anche qui per incapacità direttiva.
Le banche popolari alcune volte non sfuggono a questi mali, ma in misura fortemente ridotta e, nonostante alcune sbandate per subalternità culturale (il mito dei derivati unito alle stock option è mortale), sono – per fortuna di tutti – profondamente ben piantate nel territorio da cui dipendono, grazie al controllo esercitato dai soci su di esse E ciò vale ancor di più per le umili banche di credito cooperativo, le antiche casse rurali e artigiane.
Le grandi sofferenze vengono dai due colossi collusi e tuttavia divisi da profonde differenze culturali: la banca di sistema creata da Passera e dai torinesi del glorioso San Paolo rimane ben diversa e più orientata alla produzione per l’impresa di quanto non sia Unicredito, gonfia delle operazioni gambling (fonte il Financial Times) in terra straniera – salvo che in Polonia e in Turchia.
Monte Paschi è sé stante e la cura in corso è senza speranza, sino all’intervento che sarà inderogabile dello Stato che dovrebbe ri-trasformarla in banca locale a proprietà diffusa cooperativa con forte presenza dei comuni e dell’associazionismo, eliminando vere e proprie dominazioni massoniche e collusive tipo fondazioni bancarie et similia.
La proposta di Saccomani dinanzi a un tale disastroso quadro è solo apparentemente audace: portare l’Italia là dove agiscono i meccanismi del non banco-centrismo. Da anni invoco il ricorso da parte delle imprese al mercato dei capitali mobilizzati da intermediari specializzati come le grandi banche d’affari anglosassoni non speculative e contemperate da forte presenza del cooperativismo bancario o gli hedge fund storici orientati alla produzione (penso, per esempio, al ruolo di Cereberus per salvare Chrysler alcuni anni or sono).
Servirebbero taluni istituti statali o parastatali il cui buon funzionamento non deve essere offuscato dai guai che essi hanno provocato per assenza di regolazione dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, mentre prima avevano svolto un ruolo egregio per la crescita. Ma per far ciò occorrerebbe riformare le leggi sulla finanza attuando ciò che non si ascolta, ossia le proposte in proposito formulate per anni e anni da Assogestioni e da Assonime, da un lato, e dall’Associazione delle banche popolari, dall’altro.
Invece, si è fatto tutto il contrario. Anziché aprire un dibattito serio e ragionato, sono stati chiamati a raccolta con eccesso di spregiudicatezza tutti coloro che dovevano essere prima interpellati uno a uno e sottoposti a un esame con la lente d’ ingrandimento. Lo si è fatto recentemente al Tesoro, anche con una trascuratezza linguistica pericolosa: lo shadow banking non può essere indicato a modello, perché va di pari passo con le dark pools e una cattiva regolazione. Tali forme di raccolta dei capitali sono oggi fumo negli occhi per chi la finanza vuole svilupparla a fini di aiuto e non di speculazione sulle imprese, soprattutto piccole e piccolissime.
Com’è noto a pochi, in questi anni di crisi è sorto un enorme numero di operatori, per carità tutti nobilissimi, pronti ad approfittare del credit crunch invitando le imprese a emettere obbligazioni, bond, mezzanini, ecc, garantendone la collateralizzazione in cambio di prestiti. Ma questo è ben diverso dal rifuggire dal banco-centrismo. Gli operatori specializzati debbono essere di grandi dimensioni e assolvere compiti tipici dell’intervenire in imprese in difficoltà: tutto ciò è ben diverso dal private equity, per esempio. Invocando l’arrivo di tali operatori e sviluppando in modo improvvisato misure fiscali atte a favorire l’emissione di tali bond in forma, per esempio, congiunta tra imprese non si risolve il problema dei problemi. Esso è quello della riforma bancaria, tornando a dividere le banche di affari da quelle d’investimento e favorendo il ritorno a una banca che fa marginalità sui crediti alle imprese e non sulle speculazioni finanziarie.
Si operi in tal senso in Europa e si inizi ad agire in tal modo in Italia, utilizzando gli spazi resi possibili da una Bce che può aiutarci in questa operazione, se attuata con gradualità e buon senso. Il buon senso era la luce e la guida del banchiere di un tempo: le banche cooperative l’hanno incorporato in se stesse, perché i soci controllano il management. Quando ciò non accade, non a caso succedono disastri, ma si tratta di casi e non di regole: non è così nelle altre banche.
Oggi immediatamente occorre agire sulla Bce perché inizi l’emissione dei Bond europei. Non abbiamo bisogno dell’arrivo di hedge fund improvvisati ad hoc che danno prestiti ma a prezzi doppi o tripli e collegati a derivati che, rimodulati, consegnano le imprese nelle mani degli hedge fund medesimi. In effetti, questa operazione è un segmento della campagna di conquista dell’industria italiana che è iniziata negli anni Novanta del Novecento. Siamo così appetibili che nulla e nessuno pare fermarla e nuovi attori interpretano la parte con spregiudicatezza sconcertante.
Si tratta di un terreno molto delicato e scivoloso. Dobbiamo aprire una discussione pubblica, un confronto con gli operatori tutti, bancari di ogni tipo e non bancari. La logica dell’argomentazione deve prevalere su quella del nascondimento e delle manovre che vanno in un senso opposto alla riforma della finanza italiana e internazionale, che è urgente e indispensabile per uscire vivi dalla crisi.