Ci sono due parole oggi che ritornano con costanza nelle discussioni sulla società. Dialogo interculturale e inclusione sociale. Sono due chiavi per provare a costruire un Paese e poi un pianeta dove vengano da un lato disinnescate le tensioni tra culture, etnie e religioni diverse, e dall’altro venga eliminata la conflittualità e la disparità radicale all’interno di ogni società. Per questo motivo l’organizzazione delle Nazioni Unite ha una sezione dedicata che si chiama UNAOC, United Nation Alliance of Civilizations che ha come compito fondamentale quello di favorire l’interazione e l’impegno, soprattutto da parte dei giovani, per cambiare le cose e stimolare il confronto, il dialogo e, in ultima analisi, la pace tra i popoli nel rispetto delle differenze. Ed è proprio il linguaggio della differenza che deve diventare parte del nostro modo di parlare con gli altri. Il valore fondante del tempo che stiamo vivendo. Quando la differenza smetterà di fare paura, probabilmente riusciremo anche a disinnescare gli estremismi, da qualunque parte essi abbiamo origine. Così come sarà fondamentale la volontà di provare a capire cosa succede nel mondo.
La geopolitica è diventata sempre più complessa, ma anche sempre più popolare nel senso che tutti pensano di saper leggere gli scenari facilmente. Nell’editoriale dell’ultimo numero di Limes (la rivista italiana di Geopolitica, ndr) si legge al termine di interessantissime considerazioni sui recenti attentati in Europa che: “da questo abbozzo di diagnosi possiamo trarre qualche indicazione terapeutica. A partire dall’imperativo di non cedere alla retorica dello scontro di civiltà, alla tentazione di sparare nel mucchio e di promuovere nuove crociate nelle terre islamiche – proprio quanto serve ai jihadisti per confermarsi nelle proprie certezze e reclutare altri fanatici”. E ancora: “Proprio perché il terrorismo è un pericolo permanente, dobbiamo fuggire all’ingranaggio della paura che ci spinge a enfatizzare l’attacco, ad arroccarci in spazi recintati ma mai impenetrabili, a scambiare i migranti per orde nemiche che starebbero invadendo il Bel Paese, tra le cui pieghe s’infiltrerebbero squadre di attentatori”. Non si tratta di passaggi facili, ovviamente. Soprattutto quando veniamo colpiti nella nostra quotidianità e nella nostra intimità da attentati che scatenano le nostre paure, spingendoci alla chiusura. Non a caso, il numero di Limes si intitola: “Dopo Parigi, che guerra fa”.
Ma è doveroso per tutti noi provare a cambiare. Ad andare incontro agli altri. E un esempio straordinario di questa voglia di provare a cambiare le cose è testimoniata, sul piano dell’inclusione sociale (l’altro driver di cui parlavamo all’inizio), da un’iniziativa avviata qualche mese fa dalla Fondazione Ernesto Pellegrini Onlus, il ristorante Ruben. Tanto si è scritto sul nome del luogo. Questo senzatetto conosciuto dal Cav. Pellegrini nella sua infanzia e per il quale non poté fare nulla. “Mi si stringeva il cuore a vederlo in quelle condizioni – ha dichiarato Ernesto Pellegrini – e mi ero riproposto, appena le mie finanze, allora scarse, me lo avessero consentito, di procurargli un letto caldo. Purtroppo non ho fatto in tempo perché un giorno, uscendo dal lavoro, acquistai un giornale della sera con un titolo agghiacciante: “Barbone muore assiderato nella sua baracca”. Era Ruben. Ho sempre sentito il dovere di ricordarlo e con lui tutti quelli che hanno vissuto di stenti, ma con dignità, accontentandosi senza lamentarsi di quel poco che la vita aveva loro riservato. E nel 2014 ci sono riuscito”.
Sono stata a vedere il ristorante Ruben la scorsa settimana. Un luogo pensato per aiutare tutti coloro che vivono un momento transitorio di difficoltà: persone che hanno perso il lavoro, genitori separati, famiglie in difficoltà economica. Un ristorante curato, dove si mangia anche con gli occhi, dove i gusti e le possibilità di scelta sono rispettati e, soprattutto, dove al centro troviamo la dignità dell’uomo. Chi va da Ruben, infatti, deve pagare. Un Euro per ogni adulto, mentre i ragazzi sotto i sedici anni sono ospitati gratuitamente. E questo gesto di attenzione è straordinario. Perché il papà o la mamma che portano la famiglia fuori al ristorante e vanno alla cassa a pagare, si sentono importanti. Sentono di non aver perso nulla del loro essere, pur vivendo un periodo difficile, tosto. E infatti il luogo è frequentatissimo ogni sera (la selezione viene fatta attraverso i centri di ascolto e le associazioni diffuse sul territorio, ndr) e sta contribuendo a creare una rete di sostegno sociale, di interazione, talvolta di nuova vita. Settimana scorsa, due quindicenni si sono fidanzati da Ruben dopo essersi conosciuti lì perché le due famiglie in difficoltà erano diventate clienti abituali del luogo. Credo che questa sia la testimonianza più bella e più vera di come le cose buone possa cambiare il mondo e generare speranza laddove sembrava ci fosse solo disperazione. Basta cominciare. Basta crederci. Grazie Ruben.