Per cogliere il significato politico dell’approvazione, in Consiglio regionale, della proposta di Referendum consultivo per consentire alla Lombardia di ottenere una maggiore autonomia, bisogna sostanzialmente cercare di rispondere a tre domande.
La Regione Lombardia è una regione “speciale”? Certo, la Lombardia è “speciale” nel senso che è oggettivamente “diversa” dalle altre regioni del Paese per effetto della sua incontrastata leadership a livello europeo dal punto di vista economico e produttivo, anche nella crisi in atto. Con la Baviera, il Baden Württenberg e la Catalogna, è uno dei “quattro motori dell’Europa”. È regione virtuosa grazie alle proprie tradizioni civiche e al proprio capitale sociale. Questo ce lo ha spiegato un politologo di Harvard, Robert Putnam una ventina d’anni orsono.
La Lombardia possiede dei requisiti quali la capacità economica e produttiva, quella contributiva e fiscale, il livello delle prestazioni e dei servizi, che sono oggetto di uno svantaggio economico a causa dell’elevata tassazione da parte dello Stato centrale. Come certificato la scorsa settimana dalla Cgia di Mestre, i lombardi sono i contribuenti più tartassati d’Italia, visto che ogni residente nella nostra regione corrisponde all’erario oltre 11mila euro all’anno.
La Lombardia è virtuosa, basta solo ricordare l’entità del suo Pil, che è circa il 21% di quello nazionale, la sua spesa pubblica, che ammonta a circa il 40% del Pil territoriale, il suo residuo fiscale che è circa 54mld di euro, e i suoi costi standard nelle prestazioni e nei servizi, come recentemente comprovato dall’applicazione dei costi standard nel settore della sanità. Per tali ragioni, un’autorevole e accreditata agenzia internazionale di rating, Moody’s, ha riconosciuto un titolo di merito creditizio alla Lombardia, superiore a quello dello Stato di Roma.
Per questa folla di ragioni, la Lombardia ha tutte le carte in regola per reclamare – attraverso gli strumenti istituzionali disponibili – una maggiore autonomia politica, amministrativa e fiscale, dallo Stato di Roma.
Il regionalismo differenziato è un valore? Il regionalismo differenziato è quell’istituto giuridico-costituzionale che prevede l’esistenza di due tipologie di regioni, quelle a Statuto ordinario e quelle a Statuto speciale. E rappresenta un valore. Nel senso che dovrà essere prima o poi adottato un criterio di premialità per riconoscere il valore della virtuosità e non considerare le regioni tutte uguali. Deve pertanto essere applicato – questa è la sfida avvincente – su nuove basi.
All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, la Repubblica – durante i lavori dell’Assemblea costituente – pose “ai confini del federalismo” quelle Regioni che per specifiche ragioni etniche e storiche, culturali e linguistiche, non disgiunte da significative pressioni internazionali, richiedevano un inquadramento “speciale” nell’architettura del nuovo Stato, in base a un’adesione pattizia, fondata sul principio dottinario del contratto-scambio.
Le ragioni di allora, dopo settant’anni, sono mutate – per effetto del mutare della circostanza storica e della congiuntura economica – ma non son certo venute meno. Con buona pace dei numerosissimi detrattori della “specialità”, istituto irrevocabile poiché tutelato e garantito da accordi di natura internazionale. Oggi, di fronte alla più grave crisi dell’ultimo secolo, le ragioni di natura economica e sociale sono addirittura più rilevanti e più forti rispetto alle ragioni etniche, storiche, linguistiche, che a suo tempo militarono a favore del riconoscimento della specialità per le cinque regioni autonome.
Salvo la Provincia di Trento e quella di Bolzano, tutte le altre regioni a Statuto speciale godono di indiscutibili privilegi di natura economica e fiscale. E presentano una contabilità pubblica inaccettabile. Per contro, vi sono realtà “ordinarie”, come la Lombardia, che malgrado i limitati strumenti di auonomia politica e amministrativa, ben al di sotto di quelli connessi alla specialità, sono davvero virtuose. Perciò alla Lombardia dev’essere riconosciuta una porzione di “specialità”, che deve essere redistribuita su nuove basi, tenendo conto delle performance economiche e del rendimento istituzionale.
È giusto percorrere la strada del regionalismo a geometria variabile? Il federalismo a geometria variabile è garantito dall’art. 116, comma 3, della Costituzione, che permette alle Regioni a Statuto ordinario di accedere a un grado di autonomia paragonabile a quello contemplato dalla “specialità” delle Regioni autonome. Il referendum consultivo approvato ha una sua fondamentale importanza, perché la Lombardia ha già provato a percorrere questa strada nel 2007, tuttavia senza successo. Il fatto di aprire le trattative con il Governo per ottenere maggiori competenze sulla base dell’esito di un referendum consultivo è indubbiamente un elemento di grande forza. Perché – come diceva un grande Maestro, Gianfranco Miglio – “con il consenso della gente si può fare di tutto”. Il consenso della gente è il motore di ogni processo decisionale, di ogni cambiamento. Sarà poi la Corte a valutare la “temperatura” della “specialità” lombarda così ottenuta e a imporre al Parlamento le ratifiche costituzionali conseguenti.
La prospettiva di una Lombardia che possa godere di condizioni speciali di autonomia è l’unica strada per alleviare i drammatici risvolti di questa crisi che si sta abbattendo sulle famiglie e sulle imprese. Solo nell’autonomia politica e amministrativa la Lombardia può infatti trovare le ragioni di un suo concreto rilancio, tutelando la produzione economica dall’erosione fiscale e contributiva operata dallo Stato centrale sui gettiti locali; facendo altresì leva sulla virtuosità per ristabilire i necessari meccanismi di responsabilizzazione, trasparenza e partecipazione, nella gestione della cosa pubblica.
Ai cittadini lombardi, con il referendum approvato, semplicemente si chiede: siete d’accordo se percorriamo questa strada, aprendo questa partita negoziale con lo Stato di Roma? Se la Lombardia è in sé “speciale”, deve essere dotata di tutti quegli strumenti legislativi, fiscali e amministrativi, per potenziare e sviluppare questa sua oggettiva “specialità”. E a chi polemizza sui costi del referendum, occorre replicare che la democrazia non ha prezzo. I costi della democrazia, quando si tratta di consultare il popolo, ricorrendo a uno strumento di democrazia diretta, consensuale e partecipativa, non hanno ragione di essere posti come un elemento discriminante.