Sarebbe sin troppo facile, nel raccontare la vita e le opere di un maestro del cinema, raccontare di una vita spesa per l’arte. Ma nel caso di Franco Zeffirelli, che il 12 febbraio ha compiuto 88 anni, non si può che usare questa frase fatta: anche perchè, oltre al cinema e al grande schermo, l’arte di Zeffirelli si estesa alla televisione, al teatro e all’opera, trovando anzi in quest’ultima la sua essenza.
Quasi una sorpresa, per la capitale, essere omaggiata da un video del grande maestro. Le ultime immagini girate da un regista che ha appassionato e affascinato generazioni, e che ha dedicato a Roma una vera e propria poesia composta da musica e immagini di altri tempi.
Nato nel ’23 a Firenze, Zeffirelli non viene riconosciuto dal padre e si affida, per crescere, agli insegnamenti dell’onorevole democristiano La Pira, che conosce in collegio, e artisticamente a Luchino Visconti, col quale realizza le prime messinscene d’opera e i primi aiuti alla regia, assieme a Francesco Rosi, nella Terra trema e in Senso. L’esordio al cinema avviene nel ’57 con Camping, una commedia sentimentale con Nino Manfredi. Ma l’ascesa internazionale avviene dieci anni dopo con La bisbetica domata a cui segue, due anni dopo, il trionfale Romeo e Giulietta: gli adattamenti shakespeariani permettono a Zeffirelli di fondere il sempiterno amore per il teatro classico con il cinema moderno. Il primo, interpretato da Elizabeth Taylor e Richard Burton, si aggiudicò 3 David di Donatello e un Nastro d’argento, mentre il secondo – che ebbe l’intelligente idea di rappresentare la gioventù grazie a due attori semi-sconosciuti come Leonard Whiting e Olivia Hussey – vinse 2 Oscar, 3 Golden Globes e un David, tra i molti premi.
Da quel momento, il regista fiorentino diventa un maestro del cinema in costume, possibilmente d’ispirazione teatrale. Una carriera discontinua, certo, ma piena di riconoscimenti e successi: dal David di Donatello nel ’72 per i proto-hippies san Francesco e santa Chiara in Fratello sole sorella luna allo straripante biopic Gesù di Nazareth, vero e proprio kolossal televisivo che TV Guide definì la miglior miniserie di tutti i tempi. Col sopraggiungere degli anni ’80 arrivano le prime battute d’arresto, come il lacrimevole film sportivo Il campione o il ridicolo Amore senza fine, aggiornamento contemporaneo di Romeo e Giulietta che si meritò sei nominations ai Razzie Awards, i premi per i peggiori film dell’anno; ma anche pregevoli adattamenti operistici come Pagliacci (’82), Cavalleria Rusticana (’82), e La traviata (’83) che ne consacrano il talento melomane e gli permettono di vincere 2 Emmy e 3 Nastri d’argento.
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E proprio tra teatro (non solo opera, ma anche prosa) e cinema, si muove l’estro del regista che cerca con i suoi lavori di riadattare l’impianto teatrale classico degli originali con uno sforzo e un occhio il più possibile moderni, cercando di evitare l’accademismo: a volte ci riesce, come nello scattante Amleto (’90) con Mel Gibson, altre no come nel pesante Otello (’86) interpretato da Placido Domingo.
Con l’età, Zeffirelli diminuisce gli impegni cinematografici e aumenta quelli teatrali, rendendo evidente dove cada meglio la sua più recente ispirazione: se Un té con Mussolini (’99) e Callas Forever (’02) sembrano sussulti di memorie che il tempo ha appannato (ma Jane Eyre ha molti momenti di buon classicismo), sono memorabili le sue trasposizioni dei classici del melodramma italiano come Aida, Madama Butterfly, Il trovatore e Carmen all’Arena di Verona.
L’ultima sua opera filmica è un cortometraggio in cui il maestro racconta Roma ai turisti in procinto di visitarla: tre minuti e mezzo divisi in due parti, in cui prima la camera di Zeffirelli vola tra le bellezze della città, le chiese, i monumenti, il Colosseo e i gladiatori facendo rivivere la storia grazie alla musica della Turandot, a una telecamera in continuo movimento, agli effetti sonori fuoricampo; poi, introdotta dalla presenza di Andrea Bocelli, Zeffirelli torna al suo amore per l’opera, col tenore a interpretare E lucean le stelle con Monica Bellucci nei panni di Tosca e finisce, “in borghese”, al centro di un’arena, a intonare Nessun dorma, mentre le immagini lasciano la città e le porte di San Pietro si chiudono sulla scritta “Rome.” Un atto d’amore per la città eterna, stimolo a visitarla, ma anche se non soprattutto ringraziamento a un luogo che ha da sempre accolto il regista come una seconda casa. Cosa non da poco per uno dei pochi registi nostrani davvero internazionali.
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