Nel 1977 venne presentato al festival di Cannes un film che suscitò grandi polemiche. Il suo autore era uno dei grandi maestri dell’avanguardia cinematografica francese, ma era anche – benché Wikipedia non lo ammetta – cattolico. Il suo nome: Robert Bresson. Il film s’intitolava Il diavolo probabilmente e non raccontava una storia apocalittica, ma una storia quotidiana, la vita di un ragazzo francese qualunque del 1977. Nel 1977 un genio pluripremiato poteva ancora dire, davanti al mondo, che per spiegare la banalizzazione, la perdita di senso e di orizzonte nella vita degli uomini una sola era la chiave possibile: il diavolo, probabilmente (che nell’antifrastica bressoniana significa: senza il minimo dubbio).
Perché parlo di questo vecchio film? Mi è tornato alla memoria mentre riflettevo sulle stragi di questi giorni in Egitto, un paese a me molto caro, e sui tafferugli avvenuti addirittura qui, a Milano, davanti alla sede del Consolato Egiziano, dove un gruppo di cristiani copti che stava protestando è stato assalito da un altro gruppo di musulmani.
Siccome non c’è scappato il morto, i giornali hanno potuto occultare, o quasi, la notizia. Quello che non si è potuto occultare è, viceversa, la violenza che i cristiani stanno subendo in Egitto non ad opera dei musulmani (smettiamola di dare la colpa alle religioni, che non c’entrano), ma ad opera del nuovo governo militare post-Mubarak, che con cristiani e musulmani usa due pesi e due misure.
Non so se quello che sta accadendo in Egitto sia il frutto di una strategia locale o se la strategia non sia, piuttosto, globale.
Nel primo caso assisteremmo alla miopia di una classe dirigente che intende rafforzare il proprio potere favorendo la parte maggiore della popolazione (i musulmani sono circa il 90%) contro la minoranza: come è sempre stato fatto.
Nel secondo caso, si tratterebbe di qualcosa di nuovo: di una specie di calcolo geopolitico, di una sorta di regia mondiale di matrice militare che tenta di stabilire le aree di prevalenza, in modo da tenere in equilibrio due parole che, a dispetto dell’apparente opposizione, non vanno mai una senza l’altra: “normalizzazione” e “destabilizzazione”.
Quello che io so e che noi sappiamo è che, nel frattempo, la storia corre, e non è detto che i più forti, quelli che tengono le armi o il potere politico in pugno, siano anche i più bravi a leggerla.
Il vecchio fondamentalismo islamico sta faticando a trovare ricambio generazionale e attrattiva sulla popolazione, però sa ancora affascinare che, giunto al potere, si trova a corto di idee e soprattutto di ideali. Il fanatismo agisce sulla difficile cerniera tra azione politica e motivazione ideale.
Ma cosa significa che “la storia corre”? Significa, per esempio, che la rivoluzione cairota di gennaio vedeva insieme cristiani e musulmani; e che dopo gli attentati alle chiese cristiane furono proprio molti musulmani a prendere le difese dei cristiani, fino alla proposta di formare dei cordoni umani; e che la manifestazione che ha dato inizio alle stragi di Shubra era stata indetta da cristiano e musulmani congiuntamente: segno che gli egiziani sanno di appartenere a un solo popolo.
E se fosse proprio questo ciò di cui il potere ha paura? Se fosse quell’originalità, irriducibile a tutte le ideologie e a tutte le religioni usate come ideologie, che ha visto nascere fiori inattesi quali il Meeting del Cairo, e ha salutato con insperato entusiasmo la traduzione in arabo de Il senso religioso di Luigi Giussani?
Questo mi domando. E posso immedesimarmi in qualcuno dei capi politici o militari che si sentono incaricati di diffondere la rivoluzione fondamentalista o, che è lo stesso, di salvaguardare l’ordine mondiale (ricordate: “ordine mondiale” e “terrorismo” sono quasi la stessa cosa). Di cosa avrei paura? Di una cosa sola: dell’originalità degli uomini, della loro irriducibilità, in una parola a noi cara: del loro cuore.
Per sconfiggere il cuore dell’uomo si trova sempre qualche banda da armare, qualche picchiatore da assoldare per due spiccioli. Ma non pensino, questi signori, di avere fatto bene i loro conti. Alla fine, come dimostra la vicenda del Monachesimo in Occidente, vince chi sa leggere meglio i segni dei tempi. E i segni dei tempi possono essere talvolta piccoli a fronte dei grandi lenzuoli del Potere.
Ecco perché mi tornava alla mente il vecchio film di Bresson. Già. Chi nega tutto questo? chi vuole ridurre la storia ai calcoli del potere e alle astrazioni della geopolitica? Il diavolo, probabilmente…
Eppure, noi sappiamo che la traduzione di un libro è, spesso, un evento storico molto maggiore e più efficace di qualunque uso della forza. Occorre solo seguire questa verità fino in fondo.