L’Italia, maglia nera tra i paesi del G7, continua a registrare un prodotto lordo in decrescita (tutt’altro che felice). È vero che, prendendo i dati trimestre su trimestre, sia l’Ocse sia Eurostat prevedono un miglioramento: nella seconda parte dell’anno la curva cambia direzione, ma l’autunno e l’inverno saranno ancora gelidi; per vedere il segno più davanti bisogna attendere l’anno nuovo. Non solo. La classifica sulla competitività del World Economic Forum (i Davos boys) colloca l’Italia in ulteriore discesa al non proprio onorevole 49esimo posto. Insomma, le cose non vanno affatto bene, mentre incombono nuvoloni di tempesta: la guerra in Siria aggiunge incertezza e soprattutto si aspetta da un mese all’altro che la Federal Reserve cominci a girare il rubinetto, alzando i tassi di interesse. Per un paese che non si è ancora ripreso e deve rinnovare 400 miliardi di titoli ogni anno, saranno serissimi guai. Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, è fiducioso di restare in piedi e promette qualche scatto di fantasia per la prossima finanziaria. I mercati reagiscono, come ieri, con piogge di vendite non appena Berlusconi rialza i toni e minaccia di far cadere il governo. Vedremo. Certo è che non basta prendere tempo e galleggiare. L’orologio segna l’ora di nuove scelte difficili.
Di chi è la colpa se restiamo inesorabilmente intrappolati nel gruppo di coda? È di chi all’interno e all’estero ha fatto precipitare la crisi nel 2011? Di Mario Monti che ha applicato la politica del rigore con l’accetta? Di una grande coalizione nata all’insegna della debolezza e del sospetto, inventata più per non fare (dalle tasse alle riforme istituzionali) che per fare, dove ciascuno guarda l’avversario inchiodato ai pedali come i ciclisti nel surplace in pista? O è responsabile Silvio Berlusconi, la sua presenza, il fantasma del passato che gli impedisce un futuro e del presente che sembra averlo messo alle corde?
Rispondere non è facile anche perché il dibattito politico e giornalistico offre troppe osservazioni partigiane. In attesa di nuove testimonianze o di retroscena più o meno complottardi, il dato di fatto è che nell’estate del 2011 è imploso il centro-destra, entrato in crisi con la sconfitta subita per il comune di Milano, la caduta della roccaforte storica del berlusconismo. A quel punto, in piena crisi da debiti sovrani innescata dalla Grecia un anno prima, è apparso chiaro che la nave italiana era guidata da skipper che remavano in senso opposto. Il G8 di Deauville il 26 maggio 2011 segna uno spartiacque. Berlusconi rassicura Barack Obama sulla tenuta del governo, poi gli spiega come funziona la giustizia in Italia: “C’è la dittatura dei giudici di sinistra”.
Il lunedì successivo, arriva la batosta milanese alla quale si aggiunge una lunga serie di risultati negativi. Comincia un braccio di ferro con Giulio Tremonti affinché il ministro dell’economia allenti i cordoni della borsa. Proprio mentre dalla Germania e dall’Unione europea viene la pressione opposta e le grandi banche europee, dalla Deutsche Bank al Crédit Agricole, si alleggeriscono di Btp. La discussione sulle misure d’emergenza, durante l’estate, si trasforma in cabaret con un susseguirsi di proposte le più diverse e strampalate. Il 4 agosto lo spread arriva a 400, il 9 novembre al picco di 575, il 12 Berlusconi si dimette.
Il governo precedente era riuscito a tenere sotto controllo il differenziale con il Bund, come ricorda sempre Tremonti, e ad attutire le conseguenze sociali della crisi grazie al rifinanziamento massiccio degli ammortizzatori sociali. Al rimprovero mosso dai “rigoristi del nord”, cioè che l’Italia rinviava gli aggiustamenti strutturali, si rispondeva in sostanza: primum vivere. A parte le pensioni, non è stata decisa alcuna riforma, ma prima bisognava smaltire il colpo durissimo della crisi del 2008, rispetto alla quale l’Italia aveva reagito con la mano visibile dello stato, pur senza gli eccessi della Gran Bretagna o l’interventismo massiccio degli stessi Stati Uniti.
Monti prende una strada diversa: stangata fiscale subito, riforma radicale delle pensioni, annunci di cambiamenti profondi sul mercato del lavoro e nei servizi, privatizzazioni, vendita di patrimonio pubblico; insomma austerità liberale, una ricetta che piace ad Angela Merkel e ai mercati finanziari i quali, infatti, allentano la morsa sui titoli di stato italiani. L’effetto è stato recessivo, lo ha detto chiaramente il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco il primo settembre, notando però che “la prudenza nella gestione dei conti pubblici ha contribuito ad evitare scenari peggiori”, tra i quali “scongiurare nuove crisi di liquidità” come quella che si era verificata nel novembre 2011. Tra l’estate di quell’anno e quella successiva, la situazione italiana è peggiorata per tre punti di Pil, calcola la stessa Banca d’Italia, “un punto è attribuibile all’effetto delle misure di finanza pubblica, ma oltre un punto e mezzo riflette l’aumento dello spread; il resto dipende dal peggioramento della crescita mondiale”. Insomma, potremmo imputare a Monti una perdita dell’un per cento, a Berlusconi (cioè allo sfaldarsi del governo di centrodestra), un punto e mezzo. E a Letta?
Secondo l’Ocse il Pil scendeva di 3,7 punti negli ultimi tre mesi del 2012 e ancora del 2,2 prima delle elezioni di aprile. Il secondo trimestre di quest’anno fa segnare ancora un meno uno, il terzo -0,4 e l’ultimo -0,3. Soprattutto grazie alle esportazioni: le imprese italiane hanno preso per la coda la ripresa internazionale. Dalle parti del governo si dice che è frutto anche di un allentamento del rigore e delle misure di stimolo, tra le quali il pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione più il rinvio del rincaro Iva e dell’Imu sulla prima casa.
Adesso, però, non basta. Ci vogliono idee e proposte coraggiose per stimolare la crescita. L’appuntamento decisivo è la legge finanziaria nella quale si parte da un fabbisogno di 14 miliardi, secondo le stime che circolano. Affinché non diventi né una stangata né il solito assalto alla diligenza, bisogna incidere nel ventre molle del bilancio pubblico e accompagnare queste misure con riforme di struttura per ridurre la zavorra che spinge l’Italia sempre più giù nella scala della competitività. Per questo, c’è bisogno di un governo che governi per un ragionevole periodo di tempo. Ci sono le condizioni? Molto dipende dal fattore Berlusconi.
Se è vero, come dimostrano anche le vicende di questi due anni sommariamente riassunte, che c’è una stretta connessione tra la battaglia politica e il benessere del paese, non si può dire che quelli di Berlusconi siano i problemi di un cittadino come gli altri: il destino giudiziario del capo della destra e quello dell’Italia non si possono separare facilmente. Se, però, stacca la spina, Berlusconi non può escludere che esista una maggioranza, seppur debole e scombiccherata, per un Letta bis (con il Sel, i transfughi grillini e i “responsabili” del centrodestra). Una soluzione debole, ma in ogni caso i tempi s’allungano e il gesto di rottura si depotenzia.
E andare al voto il più presto possibile? Ammesso che sia possibile, Matteo Renzi ora ha il vento in poppa, quindi sarebbe un serio rischio per questa Forza Italia ripescata dalla vecchia culla. La tattica migliore, insomma, non è agitarsi, ma temporeggiare, costruendo nel frattempo le premesse per la sfida elettorale magari a primavera prossima, insieme alle europee. E se allora l’Italia sarà davvero in ripresa, anche grazie a una politica economica accorta e magari ad alcune riforme liberalizzatrici, sarà un bene per tutti.