Le delusioni dopo il G20 di San Pietroburgo, appena concluso, sono state molte. Eppure era difficile sperare che si raggiungesse un accordo tra situazioni profondamente asimmetriche come quelle che si stanno delineando a livello mondiale. Da un lato i Brics, dopo la conquista ottenuta imponendo alla testa della Wto un esponente del protezionismo selettivo come il brasiliano Roberto Carvalho de Azevêdo, sono intenzionati a ripensare tutte le politiche del commercio internazionale concentrandosi sulla riduzione dello scambio ineguale sostanzialmente attraverso la protezione delle industrie nazionali, delle loro agricolture e restringendo i controlli dei capitali. Del resto il commercio mondiale scende lentamente, ma con decisone e ininterrottamente da un paio di quadrimestri. Di fronte a ciò i paesi europei, Germania in testa, e gli Usa insistono invece su una politica diretta a favorire i modelli di crescita fondati sulle esportazioni in mercati non solo aperti ma sempre più aperti. E questo in un momento che geostrategicamente è il meno favorevole: i venti di guerra non aiutano la cooperazioni internazionali e il confronto tra Usa e Russia è al calore bianco; inoltre, la Germania – che guida il modello esportativo – ha deciso di fatto di muoversi verso una politica estera sempre più autonoma sia dagli Usa che dalla Francia e dal Regno Unito, ossia da ciò che è il nucleo possibile di un’Europa capace di far sentire la sua voce su scala mondiale.
Gli Usa hanno due obiettivi asimmetrici anch’essi: i due grandi accordi di libero scambio internazionali che li pongono – se realizzati – nuovamente al centro del mondo, ossia il Trans-Atlantic Trade Agreement e il Trans-Pacific Partnership Agreement, che esclude la Cina; la ricerca di una nuova centralità oceanica armando l’Australia dichiaratamente in funzione anti-cinese. Chi conosce la storia mondiale sa che questo è tempo di crescita dei mercati interni e non di crescita delle economie aperte export-lead, appunto.
L’Italia è in questa morsa: tiene nell’esportazione, anche se statisticamente ogni anno perde in comparazione con il volume totale del commercio mondiale, ma ha un terribile bisogno di rianimare il mercato interno per risollevarsi. Quella che si chiama ripresina è il raggiungimento più basso della depressione, un punto tecnico più che strutturale. Ora bisogna risalire e allora le politiche anti-deflazionistiche sono indispensabili. Si chiamano con le sigle che tutti sappiamo a memoria: Iva, Imu, Tares, ecc.: ossia, bisogna diminuire le tasse e fare i tagli di spesa selettivi e vendere ciò che è possibile del patrimonio pubblico senza smontare del tutto il nostro patrimonio industriale, sennò la crescita ce la scorderemo per sempre.
Quindi i vagiti che denunciano l’instabilità politica nazionale sono interessanti espressioni di una visione infantile dell’economia, propria di un mondo che non c’è più. Siamo nel commercio mondiale, ma solo apparentemente in un’economia aperta, perché il tallone teutonico che sopravvive e vive affossando l’Europa del Sud non ci consente di crescere né ora, né mai se non si cambiano tutti gli accordi europei come da tempo sostengo non solo su queste pagine. Ci vorrebbe la forza e il coraggio dell’utopia che in questa situazione è la scelta più concreta che si possa fare: immaginare una nuova Europa da Piano Marshall e battersi per essa ridando spazio alla politica.
Ci vogliono dei leader ma anche dei pensatori innovatori. Invece essi muoiono in solitudine politicamente, come accaduto al grande amico e maestro Pietro Barcellona, che il Signore ha voluto con sé. Il suo esempio dovrebbe aiutare a pensare al futuro e ad avere il coraggio del cambiamento. Senza cultura niente crescita. Senza coraggio nessuna speranza.