I Los Angeles Lakers non potevano perdere. Non ieri sera, e infatti hanno vinto. Frantumati i Dallas Mavericks 101-81, continua la rincorsa all’ottavo posto, ultimo utile per i playoff (hanno lo stesso record degli Utah Jazz, ma sono sotto negli scontri diretti). Tutto lo Staples Center però, ieri sera, ha celebrato non tanto la vittoria dei gialloviola, quanto il ritiro della maglia numero 34. Va detto che a Hollywood sono abituati: sulla parete dello Staples campeggiano già le canotte numero 13 (Wilt Chamberlain), 22 (Elgin Baylor), 25 (Gail Goodrich), 32 (Magic Johnson), 33 (Kareem Abdul-Jabbar), 42 (James Worthy), 44 (Jerry West) e 52 (Jamaal Wilkes), e addirittura un microfono a simboleggiare i 42 anni di attività del leggendario speaker Chick Hearn. Da ieri, c’è anche la 34 di Shaquille O’Neal. The Big Aristoteles, the Diesel, Shaq Attaq, chiamatelo pure come volete: uno dei personaggi più istrionici nella storia del basket NBA, un signore che è stato definito Most Dominant Ever (il più dominante di sempre), per il quale sono state approntate nuove regole e che quando volevi fermarlo dovevi mandarlo a tirare i liberi (il famoso Hack-a-Shaq), e spesso non bastava. 4 titoli, 3 volte miglior giocatore delle finali, uno della Lega, due volte il miglior realizzatore stagionale, 15 convocazioni all’All Star Game; ma i numeri non possono racchiudere la carriera di un giocatore che forse ha macchiato un percorso straordinario solo quando negli ultimi anni ha fatto la spola tra le contender (Phoenix, Cleveland, Boston) nel tentativo di vincere un quinto anello, senza riuscirci. Per parlare di quello che Shaquille O’Neal, nel bene e nel male, è stato per i Los Angeles Lakers non basterebbe un intero libro. Otto stagioni in gialloviola, tre titoli in quattro finali, ma soprattutto la coppia con Kobe Bryant: i due mal si sopportavano, perchè quando due giocatori dallo spropositato talento hanno anche un ego smisurato non possono certo essere come fratelli. Insieme però hanno vinto, e a più riprese: hanno dominato la Lega, creando un rebus inestricabile per ogni avversario, hanno firmato imprese storiche e che ogni tifoso dei Lakers ha nel cuore. Come dimenticare, ad esempio, quella gara-7 contro Portland nel 2000? Sotto di 15 punti a 10 minuti dalla fine, Los Angeles rimontò e andò a vincere, suggellando con un alley oop di Bryant per O’Neal che fece crollare il palazzo. Purtroppo è finita presto, molto prima di quanto i tifosi avrebbero sperato: nel 2004, a seguito del disastro della finale contro Detroit, dovendo rifirmare le due stelle i Lakers presero la scelta più ovvia. Rinnovarono il più giovane, cioè Bryant, e scambiarono Shaq. Ottennero dai Miami Heat molto meno di quanto avrebbero potuto (l’offerta dalla Florida comprendeva Dwyane Wade, ma Mitch Kupchack scelse altro temendo di ritrovarsi un doppione di Kobe), ma questa è un’altra storia. Da allora, la strana coppia si è punzecchiata a distanza: celebre il rap che O’Neal improvvisò a indirizzo di Bryant quando perse la finale nel contro Boston (“Kobe, you can’t do it without me”), a cui due anni più tardi seguì risposta del numero 24 che non perse occasione per festeggiare il quinto titolo dicendo “Ne ho vinto uno più di Shaq”. Ieri sera nel videomessaggio di Kobe non c’era animosità, anzi: “In campo non ci piacevamo, ma abbiamo tantissimi ricordi e pochi sono brutti. Dovessi rifare tutto, non cambierei nulla”. E a Shaq è scesa una lacrima quando il drappo nero ha rivelato la canotta numero 34 di fianco a quelle delle altre leggende. “Il mio primo pensiero”, ha detto commosso mentre abbracciava la madre Lucille e i sei figli, “va a Jerry Buss: vorrei che anche lui fosse qui con noi”. Ovazione dello Staples per il proprietario recentemente scomparso, lacrime da parte di Jeanie Buss, la figlia che ora guida la franchigia e che presentando l’ex centro ha semplicemente detto: “Lo descrivo in due parole, campione e Laker”, e giù ancora applausi. Poi O’Neal ha continuato, ringraziando il padre adottivo che è un sergente dei Marines, con tanto di saluto militare. E ancora: “Ricordo quando Jerry West mi portò qui: mi disse che se avessi lavorato bene, un giorno anche il mio nome sarebbe stato lassù”, e Jerry se la ride, lì sul parquet. Poi arriva il momento più emozionale della serata: Shaq ricorda Phil Jackson, l’allenatore dei cinque anelli NBA a Los Angeles (tre con lui): “Grazie coach per averci portato a un livello altissimo”, ma appena ne fa il nome il palazzetto esplode in un “We want Phil” che scuote le fondamenta dello Staples Center e fa venire i brividi. Jackson ride, ma l’emozione c’è: chissà, il discorso andrà analizzato. Ci sono ringraziamenti anche per George Mikan, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar: in una sola frase, tre dei quattro centri più importanti nella storia dei Lakers, perchè il quarto è Shaquille O’Neal. Il quinto potrebbe essere Dwight Howard, per il quale Shaq ha avuto parole dure nella conferenza stampa pre-evento: “Non lo critico, ma credo di avere il diritto di lanciargli una sfida: per vincere il titolo, deve avere medie da 28 punti e 10 rimbalzi”. Cioè, quello che per O’Neal era una normale giornata in ufficio. Bei momenti: i Lakers ne hanno vissuti tanti nella loro storia, del resto 16 titoli NBA non si vincono da tutte le parti. Però, quella strana coppia Kobe-Shaq che dominava gli avversari odiandosi cordialmente, la vorrebbero rivedere in tanti. E ieri, anche se uno era in giacca e cravatta, a tutti i tifosi gialloviola è tornato il sorriso, anche in questi tempi difficile.
(Claudio Franceschini)