Nonostante qualche segnale positivo, i problemi della denutrizione e della malnutrizione restano un’urgenza planetaria. L’innovazione tecnologica può fare molto, ma incontra ancora troppe resistenze. Rendere l’agricoltura sostenibile significa trovare le condizioni che rendono il «coltivare e custodire la Terra» compatibile con le nostre necessità. Serve un grande impegno educativo: Expo 2015 può rappresentare un’occasione per promuoverlo.
Nutrire il Pianeta. Energia per la vita. Il titolo di Expo 2015 contiene alcune parole chiave: alimentazione, energia, pianeta, vita.
Queste parole sono tra loro correlate e le tematiche sottese incidono strettamente sullo sviluppo del Pianeta e sulla possibilità di vivere in un modo umanamente degno. Infatti il nutrimento ha un valore che eccede l’aspetto bio-chimico energetico, in quanto è strettamente legato alla convivialità, all’ospitalità e in genere all’equilibrio delle relazioni primarie della comunità umana.
Come sarà abitabile il «mondo di domani»? La questione della fame avrà una risposta definitiva? Ci saranno sul Pianeta risorse per tutti?
Nel 2009 il Vertice mondiale sulla sicurezza alimentare aveva posto chiaramente il tema della scarsità delle risorse alimentari mentre nei rapporti della FAO si afferma: «la situazione è molto seria, ma la battaglia della fame può ancora essere vinta».
Su questi ampio spettro di temi portati in primo piano da Expo 2015, abbiamo posto alcune domande a Piero Morandini, Ricercatore di Biologia vegetale e Biotecnologie presso il dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano.
Facciamo il punto sull’alimentazione del Pianeta. Quante persone ancora soffrono di denutrizione? Il loro numero è in diminuzione oppure non si riesce a fare passi in avanti?
Incominciamo con una buona notizia: secondo le stime (che chiaramente dipendono dalla soglia usata come livello minimo accettabile), il numero di affamati tende a scendere da diverso tempo, con qualche risalita temporanea.
Questo è vero non solo in termini percentuali, cosa comunque non scontata, ma anche in valori assoluti. Se la quantità di cibo prodotta fosse costante, ci si aspetterebbe infatti che al crescere delle bocche da sfamare si verificasse un aumento nel numero di affamati; cosa che non si verifica.
Questo significa che la produzione di cibo cresce a un ritmo superiore all’aumento della popolazione, così che una percentuale sempre maggiore di popolazione riesce a soddisfare i propri bisogni alimentari. Il numero di affamati è minore rispetto a pochi anni fa, nonostante l’aumento di popolazione.
Per fornire il dato crudo, la FAO sostiene che su una popolazione di 7,3 miliardi, circa 800 milioni, vale a dire circa l’11% (una persona su nove) hanno sofferto di sottonutrizione cronica nel periodo 2012-2014. La stragrande maggioranza degli affamati vivono in paesi in via di sviluppo, dove la frequenza risulta uno su otto persone.
Di fatto il numero assoluto di affamati è sceso in tutte le parti del mondo tranne che nell’Africa Sub-sahariana, dove l’instabilità politica e la mancanza di infrastrutture ha pesato non poco.
1990-2 No. | 1990-2 % | 2012-4 No. | 2012-4 % | |
Mondo | 1,014.5 | 18.7 | 805.3 | 11.3 |
Regioni sviluppate | 20.4 | 14.6 | ||
Regioni in via di sviluppo | 994.1 | 23.4 | 790.7 | 14.5 |
Africa | 182.1 | 27.7 | 226.7 | 20.5 |
Africa Sub-Sahariana | 176.0 | 33.3 | 214.1 | 23.8 |
Asia | 742.6 | 23.7 | 525.6 | 12.7 |
Asia orientale | 295.2 | 23.2 | 161.2 | 10.8 |
Sud-est Asiatico | 138.0 | 30.7 | 63.5 | 10.3 |
Asia meridionale | 291.7 | 24.0 | 276.4 | 15.8 |
America Latina & Caraibi | 68.5 | 15.3 | 37.0 | 6.1 |
Oceania | 1.0 | 15.7 | 1.4 | 14.0 |
Sotto-nutrizione nei periodi 1990-2 e 2012-4.
Numero e percentuale di sottonutriti nelle varie parti del mondo.
Tratto da: FAO The State of Food Insecurity in the World, 2014, p. 8.
Premesso questo doveroso riconoscimento, è chiaro che nessuno può dormire sonni tranquilli e che occorre fare di più e il più velocemente possibile; specialmente sapendo che ci sono tutta una serie di processi in atto che rischiano di annullare i passi compiuti negli ultimi anni o addirittura di farci tornare indietro.
Mi riferisco all’aumento di popolazione (che non vedo come negativa, sia ben chiaro), ma che comunque pone un problema: come sfamarli?
Bisogna poi considerare le tendenze in atto per cui in molti paesi (giusto per nominarne due colossi: India e Cina) le diete sono cambiate notevolmente negli ultimi decenni. Si è creata una classe media consistente che chiede (e visto che se lo può permettere, di fatto si concede) una dieta più saporita e nutriente, consumando maggiori quantità di carne e altri prodotti «ricchi».
Questo si traduce nella necessità di produrre di più a livello agricolo perché per fare un chilogrammo di carne occorrono diversi chilogrammi di cereali e di legumi, in buona parte mais e soia. Inoltre la tendenza all’aumento delle rese non è più quella dei decenni passati; cioè la produzione aumenta, ma gli aumenti sono più ridotti per mais, soia, riso e frumento, che corrispondono ai due terzi delle calorie prodotte dall’agricoltura.
Tali aumenti saranno quindi insufficienti a coprire le richieste quasi raddoppiate di calorie e proteine che si attendono fra circa 20-30 anni. Insomma, non è possibile dormire sugli allori; occorre reagire subito.
Un’ultima considerazione riguarda la cosiddetta hidden hunger (fame nascosta), termine che si riferisce alle carenze di micronutrienti (vitamine e sali minerali) più che alla sensazione di mancanza di calorie e altri macronutrienti1.
Quali possono essere i motivi che ritardano la soluzione del problema della malnutrizione? Prevalgono le questioni di potere, di interessi particolari o giocano anche fattori come l’aumento della popolazione o l’arretratezza culturale di alcune popolazioni?
Stiamo parlando di un problema mondiale, che tocca miliardi di uomini e di sistemi produttivi e sul quale influiscono fattori tecnici, finanziari, ambientali e politici; per cui non aspettatevi una risposta semplice, una formuletta che metta le cose a posto.
Dal punto di vista della ricerca, però, occorre dire che i motivi del ritardo sono tutto sommato più semplici: un sottofinanziamento deliberato della ricerca e un eccesso totalmente irragionevole di regolamentazione estremamente onerosa. In pratica, da una parte non si investe nella ricerca in agricoltura, che nel passato è stata una delle forme più remunerative di investimento; dall’altra la normativa attuale è iperprecauzionale, ma ciò non comporta alcun vantaggio; anzi, essendo un notevole freno alla sperimentazione e all’innovazione, di fatto si traduce in un danno dalle proporzioni immani.
Basti pensare al Golden Rice, un riso sviluppato utilizzando l’ingegneria genetica così da contenere del beta-carotene, il precursore della vitamina A. Al meglio delle conoscenze attuali e in base alle sperimentazioni durate più di 15 anni, è ragionevole pensare che riuscirebbe a prevenire una parte consistente delle morti (si parla di 2 milioni all’anno, soprattutto bambini) e dei casi di cecità dovute alla carenza di vitamina A. Le stime ci dicono che ogni anno da 250.000 a 500.000 bambini perdono la vista e metà di questi muoiono entro 12 mesi dalla perdita.
Sul Golden Rice, che attende da 15 anni il rilascio per la coltivazione, si è detto di tutto: prima che era troppo poco efficace, poi che rischiava di fornire troppa vitamina, poi che era un trucco per far passare le royalties sui brevetti. La verità è che nessuna delle obiezioni resiste a un esame critico da parte della gente competente nei rispettivi settori; nonostante questo il Golden Rice non è ancora stato fornito agli agricoltori dei paesi dove arrecherebbe il massimo beneficio.
L’arretratezza culturale è quella delle popolazioni ben pasciute, che nulla si negano della tecnologie moderne (si pensi ai modi per viaggiare o per comunicare) ma che pretendono di decidere cosa sia bene per le popolazioni dell’India, dell’Africa o del Sud-est asiatico, cosa sia opportuno coltivare o brevettare2.
«Nutrire il Pianeta» implica una maggior produzione di cibo? Tralasciando l’aspetto finanziario/economico, ciò non può portare a un «esaurimento» del Pianeta?
Se manteniamo l’attuale configurazione dei consumi alimentari e la proiettiamo nel futuro secondo le tendenze attuali, allora non v’è dubbio che la produzione debba aumentare.
Ricordiamoci che oggi una grossa parte della produzione di soia e di mais serve per produrre i mangimi per il bestiame, da cui poi noi ricaviamo carne, latte e prodotti derivati (formaggi, yoghurt, burro, uova…). Quindi se la popolazione aumenta e la gente vuol mangiare più saporito (cibi di derivazione animale) dobbiamo produrre più soia e più mais. Non sto auspicando questo o giustificandolo, lo prendo come un dato di fatto.
Personalmente propenderei per una riduzione dei consumi di questi alimenti (e in generale in una riduzione nel numero delle calorie) nei paesi sviluppati, perché questo aiuterebbe a ridurre la pressione sull’ambiente, a migliorare la nostra bilancia commerciale (ricordiamoci che importiamo quasi metà delle derrate alimentari che consumiamo) e a condurre una vita più sana.
Ma anche se questo auspicio si realizzasse, ciò probabilmente non diminuirebbe il numero delle persone affamate nei paesi in via di sviluppo, perché quello che noi risparmieremmo in termini di soia e mais (o di altre derrate alimentari prodotte ma non consumate) non finirebbe nelle bocche di chi ha fame.
Molte infatti delle persone che sono affamate lo sono perché non hanno potere d’acquisto; quindi sarebbe cruciale aumentare la produzione in quei paesi e proprio ad opera dei loro agricoltori, perché con l’aumento delle produzioni migliora l’economia e cala il prezzo del cibo3.
La «sovranità alimentare» di ciascuna comunità può essere una soluzione realistica del problema?
La sovranità alimentare di ogni territorio, cioè la capacità di essere autosufficienti nella produzione alimentare, è auspicabile; ma non si può dimenticare che, se fosse imposta a livello nazionale o più ancora a livello locale, condannerebbe alcune nazioni (o territori) alla fame o comunque a ristrutturazioni profonde nelle diete, perché tali nazioni o territori non producono a sufficienza, sia in termini di qualità che di quantità.
Fra queste nazioni non ci sono solo paesi con climi inadeguati alle produzioni agricole (per esempio Islanda oppure parte di quelli dell’Africa Sahariana), ma anche paesi agricoli come l’Italia e buona parte delle nazioni europee, le quali di fatto importano parti tutt’altro che trascurabili del cibo o dei mangimi. Senza l’importazione di prodotti agricoli come soia, frumento, mais, l’Italia vedrebbe dimezzate le proprie disponibilità alimentari e la propria capacità di produrre prodotti di punta del proprio export come il parmigiano.
Per esempio l’Italia importa ogni anno circa 4 milioni di tonnellate di soia o di derivati che sostengono la zootecnia nostrana. Discorso analogo vale per l’Europa che importa annualmente oltre 40 milioni di soia e derivati. Se l’Italia dovesse produrre tutta la soia che consuma, avrebbe bisogno di circa 10 volte la superficie attualmente coltivata a soia, superficie che non abbiamo a meno di sottrarla a quella usata per altre colture o alle zone selvatiche. Se quindi decidessimo di diventare autosufficienti, dovremmo eliminare gran parte della carne, del latte, dei formaggi e cibi simili, per favorire una dieta più ricca di cereali (soprattutto mais, meno pasta e pane) e legumi.
Un secondo aspetto da considerare è che molti paesi si sono specializzati nelle produzioni agricole proprio perché più adatti a quelle produzioni. La vendita di quelle produzioni sono spesso alla base di quelle economie e quindi delle ricchezze.
Pretendere che ciascuna nazione (o territorio? o comunità?) sia autosufficiente ridurrebbe drasticamente il commercio e la struttura produttiva. Se il parmigiano fosse solo consumato in Italia (o in pianura padana o a Parma) molti degli imprenditori agricoli che lo producono dovrebbero riconvertirsi a qualcosa d’altro. Invece il parmigiano è apprezzato e venduto in tutto il mondo.
Se i paladini del «km zero» applicassero agli altri quello che desiderano per se stessi, si renderebbero conto degli aspetti meno appetibili dell’idea che propugnano.
Le nuove tecnologie possono avere un ruolo in questo?
È chiaro che cercare di migliorare le produzioni in termini quantitativi e qualitativi con l’introduzione di nuove tecnologie andrebbe proprio nella direzione di aumentare la sicurezza alimentare di una nazione, riducendo le importazioni e migliorando la bilancia del commercio con l’estero, in perenne rosso.
Faccio un esempio. Se potessimo coltivare il mais Bt in Italia ne ricaveremmo un duplice beneficio: aumenteremmo la produttività (quindi potremmo ridurre le importazioni) e inoltre avremmo un mais più sano perché meno contaminato da una delle classi di micotossine, le fumonisine, che rendono invendibile ogni anno parte della nostra produzione.
Da circa 20 anni però abbiamo fatto la scelta di non coltivare le varietà di mais Bt (varietà peraltro coltivate su oltre 130.000 ettari in Spagna) e questo ha voluto dire non avere più accesso alle migliori linee usate a livello internazionale per costituire gli ibridi, perché queste linee portano appunto caratteri transgenici come il Bt o la tolleranza agli erbicidi.
Le nostre rese sono quindi rimaste ferme a quelle di metà degli anni Novanta, perché le varietà che coltiviamo risalgono a quel periodo (si vedano i grafici che seguono).
Rese del mais in Italia e negli Stati Uniti: è evidente la stagnazione nelle rese nostrane negli ultimi 20 anni.
Questa sembra essere l’interpretazione più sensata nella stagnazione delle rese che si osserva, anche se altri fattori possono influire. Una tale stagnazione non si verifica in nazioni che hanno una maggiore propensione a innovare.
La decisione di escludere queste innovazioni ha quindi significato perdere degli incrementi di produzione che si traducono in media ogni anno in centinaia di milioni di euro di produzione persa, che colmiamo invece con l’importazione. E questo senza considerare le perdite dovute alla contaminazione da fumonisine che rendono parte del mais utilizzabile solo per la produzione di bioetanolo.
Si potrebbero fare numerosi esempi di come l’innovazione tecnologica possa migliorare le produzioni e rendere l’agricoltura più sostenibile, ma questo richiede da una parte la capacità tecnica (che ormai stiamo perdendo) e la volontà politica (che non abbiamo mai avuto).
Faccio notare che tutte le leggi e leggine nazionali e regionali invocate per impedire la coltivazione del mais Bt in Italia erano e sono, almeno per ora, in contrasto con la norma comunitaria che è superiore, e quindi sono illegali4.
«Nutrire il Pianeta» è una questione educativa? Come affrontarla? Come coniugare la cura e il rispetto del creato con il fornire a tutti uguali possibilità di sviluppo?
Nutrire il Pianeta richiede ovviamente la produzione agricola e la sua trasformazione in cibo; tutto questo ha un aspetto educativo su «come» fare queste operazioni e come trasmetterne la conoscenza lungo le generazioni senza rinunciare a valori quali la sicurezza dei cibi, ormai scontata nei nostri paesi, ma ancora lontana per tanti paesi. Ma non solo.
Connesso intrinsecamente a questo aspetto del fare c’è un aspetto più propriamente educativo che è quello del trovare, in ogni nuova situazione e tempo, le condizioni che rendono il coltivare e custodire la Terra compatibile con le nostre necessità. Detto in termini meno biblici: come è possibile rendere l’agricoltura più sostenibile?
Non dobbiamo dimenticare infatti che è l’agricoltura in sé ad essere uno dei maggiori pericoli per la biodiversità in senso lato. Dentro al campo coltivato vogliamo essenzialmente una sola specie vegetale: la pianta coltivata. Le altre specie sono spesso erbacce che vanno combattute per evitare perdite di produzione. Stesso discorso vale per gli insetti o altri organismi nocivi (lumache, funghi, batteri…) che riducono la produzione, la distruggono o la degradano.
Quindi da una parte è importante fornire a tanti paesi informazioni sull’importanza di scienza e tecnologia per aumentare le rese, immagazzinare e conservare le derrate alimentari, processarle per ottenere cibi sicuri, distribuirle riducendo le perdite, eccetera. Dall’altra non è possibile evitare una seria riflessione sui nostri stili di vita e sugli sprechi assurdi a cui assistiamo.
A me personalmente piange il cuore veder buttare via due volte alla settimana dal bar vicino a casa molto pane solo perché invenduto e quindi indurito. Lo raccolgo – nonostante le lamentele della figlia piccola che si vergogna di un simile padre accattone – quando passo con la bicicletta mentre la accompagno a scuola. Non si risolverà certo il problema della fame nel mondo, come prima argomentato; ma ogni spreco evitato può significare un risparmio e una minor pressione sull’ambiente o semplicemente un’occasione per entrare in contatto con mondi di cui conosciamo poco o che addirittura sfuggono totalmente alla nostra esperienza. Io per esempio porto il pane raffermo a una persona che alleva mucche e altri animali in Valle d’Aosta, dove ho la fortuna di andare in vacanza. Questo mi ha aiutato a entrare in contatto con quel mondo.
C’è un problema di abitudini quotidiane da rivedere, di stili di vita …
Un aspetto che ci riguarda tutti è educare alla temperanza: mangiare meno e mangiare equilibrato, riducendo il consumo di calorie e di cibi ricchi.
Alzarsi da tavola con un pochino di fame è uno dei modi per allungarci la vita e ridurre l’incidenza di tutta una serie di malattie croniche. L’Italia detiene il primato mondiale dell’obesità e del sovrappeso tra i bambini (la somma di queste due categorie per i bambini tra i 2 e i 10 anni rappresenta oltre il 40%), un primato che ci costerà carissimo in termini di spesa medica e di problemi psicologici ed umani, non proprio una cosa desiderabile.
Le famiglie (e le madri e le nonne in particolare) devono rendersi conto che nutrire sempre a sazietà (e oltre!) i propri bambini non significa farli felici, anzi: da una parte è diseducativo, perché i figli non sono più abituati a sopportare che si neghi loro qualcosa; dall’altra è un danno alla loro salute e alla loro persona5. Il discorso vale ovviamente anche per gli adulti, che devono dare l’esempio e possono così comunicare più facilmente anche il valore di certe rinunce.
Naturalmente bisognerà considerare l’aspetto educativo a diversi livelli, sia nel mondo produttivo sia nelle abitudini quotidiane; come pure nel mondo sviluppato e in quello in via di sviluppo, perché spesso in questi paesi man mano che si elevano sopra il livello di povertà vanno incontro alle stesse storture che si verificano da noi (ipernutrizione, diete sbagliate…).
Come bene argomenta il Cardinal Angelo Scola nel suo discorso su EXPO6, occorrerà che miliardi di persone adottino cambiamenti (spesso piccoli) in moltissime abitudini. Quanto questo sia fattibile lo lascio al giudizio di ciascuno, certo è che se non incominciamo e se non educhiamo, non ci arriveremo mai.
C’è un altro aspetto che mi sembra opportuno sottolineare e che temo sia stato completamente oscurato nella discussione su : l’agricoltura ha in sé una valenza e un contenuto culturale notevole. Questo è evidente non solo dalla radice comune delle due parole (coltura/cultura), ma anche dalla semplice osservazione di molti ambienti contadini o delle operazioni connesse con l’agricoltura.
Per esempio, coltivare un orto è un’attitudine rarissima nelle grandi città, per ovvia disponibilità sia di spazio sia di tempo, ma l’attività è sommamente educativa e importante per i piccoli. Per ottenere infatti un alimento occorre prima vangare, poi concimare, seminare, eliminare le erbacce (questa attività non la si capisce fino a quando non la si sperimenta!), irrigare, proteggere da parassiti di ogni tipo, raccogliere, conservare e processare in modo da trasformare in un prodotto sano e commestibile.
Tutta questa trafila è altamente educativa perché è un (se non il) paradigma della vita e dello studio: per ottenere dei buoni risultati occorre fare fatica e i risultati si vedono solo al termine di un lungo percorso, in cui le competenze e l’intelligenza, ma anche la ripetitività e la fedeltà diventano tutti essenziali. I bambini possono imparare molto dal coltivare un orto, e gli adulti, ormai in stragrande maggioranza ignari dell’origine del cibo e dei pericoli e della fatica ad esso connessi, possono trarre una grande lezione, così che tante esagerazioni e paturnie sul cibo e sugli stili di vita credo si dissolverebbero velocemente.
In parte per questa finalità educativa, un gruppo di docenti e professionisti che partecipano all’esperienza dell’Associazione Euresis hanno realizzato la mostra Naturale, artificiale, coltivato che è stata presentata al Meeting per l’amicizia tra i popoli a Rimini nel 2013 e che è possibile esporre in ogni occasione utile (scuole, centri culturali, eventi…).
La mostra sarà in esposizione all’Abbazia di Mirasole (comune di Opera, a sud di Milano) durante il periodo di EXPO 20157.
a cura di Roberto Sanvito
(Membro della Redazione di Emmeciquadro e Responsabile Editoriale della Rivista)
Note e Approfondimenti
www.worldhunger.org/articles/Learn/world%20hunger%20facts%202002.htm
http://stradeonline.it/innovazione-e-mercato/474-quanto-ci-costa-vietare-gli-ogm
Sull’epidemia di obesità infantile si veda: www.nature.com/ijo/journal/v38/n2s/full/ijo2014140a.html
www.chiesadimilano.it/expo/riflessioni/news-riflessioni/cosa-nutre-la-vita-il-discorso-alla-citt%C3%A0-dell-arcivescovo-su-expo-1.104927
Sulla mostra: www.meetingmostre.com/default.asp?id=344&id_n=28867
Il suo catalogo: www.itacalibri.it/it/catalogo/aavv/naturale-artificiale-coltivato.html?IDFolder=144&IDOggetto=43962&LN=IT
Per l’esposizione a Mirasole: www.mirasolepremostratensi.it/
© Pubblicato sul n° 56 di Emmeciquadro