I razzi sono i ben noti strumenti delle imprese spaziali; poco conosciuti sono peraltro sia il percorso storico, alquanto lungo e complesso, che li ha generati, sia le loro caratteristiche tecniche.
In questa prima parte dell’articolo si parte dalle loro origini e dai loro usi pirotecnici, strettamente legati alla scoperta, in Cina, della polvere nera. Verrà ricordato come essi furono usati, anche a fini militari, già nel tardo medioevo, per poi rimanere, per un lungo periodo dei semplici oggetti di intrattenimento per feste e spettacoli popolari. Dopo una ripresa del loro uso bellico nell’Ottocento, solo all’inizio del Novecento, in Russia, in America e poi soprattutto in Germania, comincia uno sviluppo tecnologico che porterà dal razzo al missile.
Il percorso storico si ferma alle soglie della nascita della V-2, il primo missile moderno, il quale costituirà lo spunto, nella seconda parte di questo articolo, anche per un approfondimento sulle caratteristiche tecniche fondamentali dei razzi stessi.
Le missioni e le esplorazioni spaziali, sia quelle con uomini a bordo che quelle condotte da veicoli automatici, sono ormai uscite da molti anni dalla fase pionieristica, e sotto la guida dalle storiche agenzie spaziali americana, russa ed europea, ormai tallonate da analoghi organismi di paesi emergenti quali la Cina e l’India, oltre che da alcune interessanti iniziative private, alimentano una imponente «industria dello spazio», che lavora con continuità e coinvolge migliaia e migliaia di persone, smuovendo ogni anno cifre da capogiro. Si tratta di un comparto industriale ad altissima tecnologia e ad altissima specializzazione verso il quale, peraltro, l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa si risveglia ormai solamente in casi eccezionali, quali la missione Rosetta dell’ESA che lo scorso novembre ha portato una sonda automatica a posarsi su una cometa o il «mini-shuttle europeo», collaudato a febbraio di quest’anno.
Piuttosto di rado capita inoltre di leggere, a lato delle notizie sulle singole imprese, resoconti di facile comprensibilità sulle tecnologie e i sistemi che sostengono lo svolgimento delle missioni stesse, cioè i missili e i loro motori, i sistemi di guida, i centri di controllo e le reti satellitari di comunicazione, i poligoni di lancio, eccetera, come se essi non fossero tuttora la base indispensabile che sostiene l’invio di qualsiasi oggetto nello spazio.
Sui razzi, in particolare, che sono indubbiamente l’elemento fondamentale di ogni missione spaziale, ci è parso interessante fornire ai lettori un sintetico exursus sia a livello storico, sia a livello tecnico. Nella prima parte dell’articolo ripercorreremo quindi la lunga storia del loro sviluppo, mentre nella seconda parte forniremo anche alcune informazioni tecniche basilari sulle loro caratteristiche.
Contiamo in tal modo che i lettori più curiosi, alla meraviglia ed alla sete di sapere con la quale seguono e seguiranno imprese straordinarie come quella di Rosetta, possano aggiungere una maggiore consapevolezza di ciò che le ha rese e le rende tecnicamente possibili.
Tutto cominciò con la polvere nera e i razzi pirotecnici
È abbastanza risaputo che la polvere da sparo (detta anche polvere nera o polvere pirica) e i suoi utilizzi nella pirotecnia, nelle armi o come esplosivo, furono introdotti in Occidente dalla Cina, dove erano già in uso perlomeno dal X secolo d.C. (secondo alcune testimonianze anche da molto prima, specie per usi pirotecnici).
Verso la metà del XIV secolo, su armi da fuoco quali cannoni e bombarde si trovavano ormai frequenti citazioni in molti documenti europei; è inoltre noto che in campo militare si utilizzavano anche altre armi da lancio, derivate probabilmente dagli usi pirotecnici della polvere nera. Per esempio, in una cronaca1 relativa alla «Guerra di Chioggia» del 1379, uno dei conflitti che opposero Genova e Venezia, si riferisce con le seguenti parole sull’incendio della Torre delle Bebbe, a Chioggia: «Pure una rocchetta fu tirata nel tetto della torre de si fatto modo, que il tetto si accese».
Si trattava indubbiamente di un razzo, la cui asta di stabilizzazione lo faceva assomigliare alla rocca affusolata impiegata per filare la lana; da qui il nome di «rocchetta», inizialmente usato per questo congegno, per il quale la lingua italiana avrebbe però in seguito adottato un altro termine, etimologicamente derivato dal latino radius, entrato nell’uso comune probabilmente a indicare, il raggio, la scia, lasciata nel cielo dai fuochi d’artificio (la radice del vocabolo rocchetta è invece rimasta in altre lingue europee, tanto che razzo si dice in inglese rocket, in francese roquette, in tedesco rakete e di in russo rakieta).
Peraltro non è difficile immaginare che le rocchette fossero «armi» piuttosto rudimentali e soprattutto imprecise; non meraviglia quindi che col progresso dei cannoni e della balistica esse divenissero abbastanza rapidamente obsolete.
I secoli fra il tardo medioevo e il Settecento furono in effetti anni d’oro solamente per i razzi di tipo pirotecnico, ampiamente usati in feste e celebrazioni di ogni tipo. L’arte pirotecnica si sviluppò in modo empirico, introducendo effetti sempre più spettacolari (come i razzi colorati, che divennero però di uso comune solo verso la metà del Settecento).
L’Italia ebbe in questo campo abilissimi artigiani, quali i fratelli Ruggieri di Bologna, che furono chiamati perfino alla corte parigina del Re Sole, ma l’arte pirotecnica non mancò peraltro di essere codificata in maniera «scientifica», nel Secolo dei Lumi, in corposi trattati, quali il rinomato Trattato di fuochi d’artificio di Giuseppe Antonio Alberti (1712-1768), pubblicato a Venezia nel 1749; anche la Encyclopédie (Parigi, 1772) di Diderot (1713-1784) e D’Alambert (1717-1783) dedicò alla materia un buon numero di pagine.
In ogni caso, fino agli inizi dell’Ottocento i razzi furono praticamente dimenticati come attrezzi bellici. Fu l’ufficiale britannico William Congreve Jr. (1772-1828), dopo le sue esperienze belliche in Oriente (dove fu testimone del loro efficace uso da parte degli Indiani), a farli tornare in auge in Occidente mettendo a punto degli ordigni dotati di un involucro metallico (pesanti quasi 15 kg), che grazie a una lunga asta posteriore di stabilizzazione riuscivano a compiere delle traiettorie abbastanza lunghe (molte centinaia di metri) e precise da consentire un uso pratico sia su terra che sul mare.
I razzi di Congreve furono usati dagli inglesi fin verso la metà dell’Ottocento e utilizzati anche da altri eserciti (compresi gli artiglieri del Regno Sabaudo); in seguito furono sostituiti da un modello perfezionato da William Hale (1797-1870), il quale riuscì a disporre gli ugelli di scarico in maniera tale che il razzo ruotasse su se stesso, autostabilizzandosi in modo simile ai proiettili di artiglieria. Un altro militare inglese, il colonnello Edward Boxer (1822-1898) nel 1865 ebbe l’ulteriore idea di aumentare la gittata mettendo due razzi in serie nel tubo di lancio, realizzando il primo rudimentale razzo bistadio; nonostante questi perfezionamenti l’utilizzo bellico dei razzi rimase in ogni caso piuttosto limitato e non fece progredire di molto questa tecnologia.
Anche durante la Prima Guerra Mondiale, tentativi come quello del tenente francese Yves le Prieur (1885-1963) di utilizzare razzi incendiari per attaccare con il suo aeroplano dirigibili e palloni aerostatici, rimasero legati a configurazioni dei razzi piuttosto rudimentali.
Le intuizioni e gli studi di Tsiolkovskii, Goddard e Oberth
In effetti il limite principale dei razzi, anche di quelli bellici usati fino alla prima guerra mondiale, rimaneva da un lato la scarsissima efficienza con la quale veniva sfruttata la pur rilevante energia contenuta nel propellente, dall’altro il fatto che la polvere pirica non era in ogni caso un propellente di grandi prestazioni.
Nonostante ciò, fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, per i pionieri o visionari che in varie nazioni iniziarono a ragionare in termini «scientifici» della possibilità di raggiungere l’alta atmosfera o addirittura di compiere dei viaggi nello spazio interplanetario, divenne evidente che la propulsione a razzo era l’unico mezzo pensabile per raggiungere le alte velocità necessarie a sfuggire alla gravità terrestre2.
L’articolo di Tsiolkovskii
Fu in particolare Konstantin E. Tsiolkovskii, un oscuro insegnante di matematica nella cittadina russa di Kaluga, situata circa 150 km a sud-ovest di Mosca, a precisare per primo le basi scientifiche della propulsione a razzo pubblicando nel maggio del 1903 un fondamentale articolo dal titolo: L’esplorazione dell’Universo con un veicolo a reazione3.
[A sinistra: Konstantin E. Tsiolkovskii (1857-1935)]
In esso egli sosteneva la fattibilità per l’umanità di viaggi ed esplorazioni dello spazio interplanetario4 mediante veicoli con propulsione a razzo; dimostrava in effetti con argomentazioni matematiche rigorose, che in base al principio di azione e reazione un razzo avrebbe potuto muoversi senza problemi nel vuoto e, se caricato di opportuni propellenti, raggiungere la velocità di fuga dalla gravità terrestre.
A sostegno di queste affermazioni egli esponeva un elegante modello matematico, tuttora ben noto come «equazione di Tsiolkovskii» che lega fra di loro quattro variabili: la velocità del razzo, la sua massa, la massa dei propellenti (combustibile e comburente) e la velocità dei gas eiettati per effetto della combustione dei propellenti stessi.
I suoi calcoli dimostravano come variando opportunamente la velocità di eiezione dei gas e la portata dei propellenti la velocità di fuga poteva essere effettivamente raggiunta. Il razzo capace di tali prestazioni secondo il pioniere russo doveva superare di molto le prestazioni dei ben noti razzi a polvere pirica ed essere alimentato a propellenti liquidi.
Egli forniva una descrizione di principio delle componenti principali di questo tipo di razzo, prevedendo la presenza di opportune pompe che alimentassero una camera di combustione e un opportuno ugello, per le pareti dei quali era previsto un efficace raffreddamento tramite il propellente stesso.
Venivano inoltre descritti i propellenti più efficienti, dimostrando che la coppia idrogeno-ossigeno sarebbe stata la migliore. L’equazione di Tsiolkovskii conteneva inoltre anche l’implicita indicazione dell’opportunità di utilizzare razzi pluristadio, in grado cioè di abbandonare progressivamente dietro di sé il peso morto delle parti che avessero esaurito la loro funzione di spinta iniziale e di contenimento dei propellenti.
L’articolo di Tsiolkovskii restò praticamente ignorato per più di vent’anni, e benché fosse lucido a livello dei principi, rimase di fatto poco più di una esercitazione teorica, anche perché Tsiolkovskii non ebbe mai né i mezzi, né gli appoggi per passare dalle equazioni a qualche sperimentazione pratica delle sue teorie.
Le ricerche missilistiche di Goddard
L’americano Robert H. Goddard, come pioniere dei razzi ebbe indubbiamente più mezzi e più fortuna di Tsiolkovskii; sebbene infatti rimanesse per molti anni uno scienziato piuttosto isolato e incompreso nel suo lavoro, egli apparteneva in ogni caso all’establishment scientifico-universitario, ed ebbe non poche, se pur travagliate, possibilità di sperimentare dal vivo le sue idee e le sue teorie sui razzi.
Robert H. Goddard (1882-1945)
Dopo aver conseguito nel 1911 il dottorato in fisica alla Clark University (di Worcester, Mass.) rimase molti anni come ricercatore in questa piccola università, occupandosi inizialmente di argomenti non correlati alla propulsione.
Il suo lavoro nel campo dei razzi era peraltro già iniziato nel 1909, quando era ancora uno studente, con i primi sistematici esperimenti sulla velocità di eiezione dei gas di scarico. Egli compì numerose esperienze con razzi a polvere pirica riuscendo a elevarne enormemente l’efficienza con l’adozione di ugelli di forma convergente-divergente, simili a quelli usati da De Laval nelle turbine a vapore: gli fu così possibile passare dal modesto valore di efficienza propulsiva del 2%, tipico dei razzi usati nei fuochi d’artificio, al valore del 63%. Costruì inoltre un dispositivo sperimentale che consentiva la prova dei razzi nel vuoto, in modo da dimostrare che la loro spinta era dovuta alla forza di reazione all’eiezione dei gas, e non all’azione dei gas sull’aria, come molti (anche accademici) allora sostenevano.
Dopo i primi anni di lavoro solitario, svolto con pochissimi mezzi e rubando il tempo ai suoi compiti di assistente universitario, a partire dal 1917 Goddard ottenne dalla Smithsonian Institution, e in seguito anche da altri enti, ripetuti, anche se sempre modesti, finanziamenti per le sue ricerche missilistiche.
Le esperienze di un decennio e il corrispondente lavoro teorico furono la base di quello che sarebbe poi diventato un suo famoso articolo del 1919, Un metodo per raggiungere altezze estreme (la cui prima stesura risaliva già al 1914) che rappresenta la prima consistente trattazione scientifica del problema del volo nello spazio, apparsa in America.
Peraltro, in questo articolo Goddard sottolineava principalmente l’interesse scientifico di raggiungere l’alta atmosfera, per studiarne le caratteristiche, accennando in termini piuttosto vaghi all’idea di usare razzi a più stadi; egli spiegava con calcoli ed equazioni il principio del volo ad alta quota, stimando la riduzione di resistenza dovuta alla rarefazione dell’aria. Menzionava inoltre la possibilità di inviare un razzo sulla luna, con un carico di magnesio che ne rendesse visibile l’impatto sulla superficie, e accennava, solamente in una nota, anche alla molto maggiore velocità ed efficienza che sarebbe stata resa possibile dall’uso, come propellenti, di ossigeno e idrogeno liquidi.
Il saggio di Oberth
L’interesse per i razzi ed i voli spaziali coinvolse, forse con qualche anno di ritardo, anche il mondo germanico, ma fu da esso che poi vennero, come vedremo, le idee e le realizzazioni più innovative.
Sul piano delle idee l’evento forse più significativo avvenne verso la metà del 1923, quando Herman Oberth, giovane laureato in fisica di origini tedesche, ma nato in Romania, pubblicò a Monaco un volumetto sui razzi e i voli spaziali intitolato Die Rakete zu den Planetenraumen (Sui razzi nello spazio interplanetario).
[A destra: Herman Oberth (1894-1989)]
Il saggio si proponeva di dimostrare, con argomentazioni scientifiche, quattro principali tesi: allo stadio presente della scienza e della tecnologia sarebbe già stato possibile costruire macchine in grado di innalzarsi oltre i limiti dell’atmosfera terrestre; con ulteriori miglioramenti si sarebbe potuta raggiungere la velocità di fuga dalla Terra; queste macchine avrebbero potuto portare esseri umani, senza effetti negativi per la salute; nel giro di pochi decenni la costruzione di queste macchine si sarebbe auto-ripagata.
Il libro di Oberth passò all’inizio quasi inosservato (ricevendo per giunta una cattiva accoglienza nell’ambiente accademico), ma ebbe la fortuna di essere ripreso da un noto scrittore di origini sudtirolesi, Max Valier (1893-1930)5, che aveva pubblicato numerosi libri di successo basati, fra l’altro, su di una bizzarra concezione cosmologica e sull’occulto.
Valier iniziò una energica crociata a favore di Oberth, pubblicando un libro, diversi articoli su quotidiani e riviste popolari, e tenendo numerose conferenze in Germania e Austria. L’entusiasmo per i voli spaziali si diffuse, tant’è vero che nella primavera del 1927 fu fondata in Germania la rivista Die Rakete (Il razzo) che in breve divenne l’organo ufficiale di un gruppo di appassionati, la Verein fur Raumschiffahrt (Associazione per il volo spaziale).
Nel frattempo Valier aveva anche trovato la persona giusta per dare ulteriore pubblicità e sostanziosi finanziamenti all’idea della propulsione a razzo. Fritz von Opel, noto play-boy ed erede della omonima dinastia automobilistica, si era infatti lasciato convincere a finanziare la costruzione di un’automobile propulsa da razzi, che egli guidò personalmente, nel maggio del 1928, nell’autodromo di Berlino. L’evento, ebbe una enorme risonanza sulla stampa, e fu anche trasmesso in diretta dalla radio.
I tedeschi furono presi da una sorta di febbre collettiva, culminata tra il 1929 e il 1930 in una serie di spettacolari imprese legate alla propulsione a razzo (furono provati l’aliante, la slitta, il treno e perfino la bicicletta a razzo6), alla quale anche il cinema diede voce con il film di Fritz Lang, Frau im Mond (La donna sulla luna) del 1929.
Le realizzazioni pionieristiche degli anni Venti e Trenta
Nel frattempo Robert Goddard, aveva proseguito il suo solitario lavoro negli Stati Uniti, ma quando cercò di passare dalle prove in laboratorio ai lanci in campo accumulò molti insuccessi con i razzi a propellente solido7. Per questo motivo a partire dal 1921 cominciò a tentare la strada dei combustibili liquidi, riuscendo comunque solo dopo cinque anni, nel marzo del 1926, a realizzare il primo modestissimo lancio (poco più di 12 metri d’altezza) di un razzo di questo tipo.
Abbandonata l’università e trasferitosi in una sperduta località del New Mexico dovette poi lavorare fino al 1937 prima che un suo razzo raggiungesse i 2700 metri di altezza. A differenza di altri più teorici pionieri, Goddard non si stancò comunque di sperimentare, non solo nuovi razzi, ma anche nuove soluzioni tecnologiche per la loro costruzione e guida, quali: paracadute per il recupero dei carichi, strumenti speciali per misurare le prestazioni dei razzi, grappoli di motori, catapulte di lancio, eccetera. Ma nonostante tutti questi elementi singolarmente impressionanti egli non riuscì mai a combinarli in un razzo funzionante in grado di raggiungere le altezze di centinaia di chilometri a cui aspirava.
Le sue idee, rese pubbliche tramite numerosi brevetti, sebbene poco valorizzate in patria, furono in ogni caso una preziosa fonte di ispirazione per altri, in particolare per i tecnici tedeschi, che avrebbero presto assunto la leadership della missilistica mondiale.
Le sperimentazioni in Germania
In Germania le gravi difficoltà che cominciarono a travagliare la Repubblica di Weimar, fecero cessare rapidamente l’entusiasmo popolare per i voli spaziali, già raffreddato per le delusioni create dagli insuccessi che erano seguiti alle dimostrazioni spettacolari e alle grandi promesse iniziali.
Al declino contribuì anche la tragica morte di Valier, avvenuta nel 1930 durante il collaudo di un primo motore a combustibili liquidi. Ma un seme era stato lanciato, e le sperimentazioni continuarono, ad opera soprattutto dei membri dell’Associazione per il Volo Spaziale. Un primo razzo a propellenti liquidi fu da loro lanciato con successo nel gennaio del 1930.
Verso la fine dello stesso anno l’associazione contattò l’esercito tedesco per avere dei fondi, riuscendo peraltro solo a ottenere il permesso di proseguire le proprie sperimentazioni presso un deposito di munizioni abbandonato, nelle vicinanze di Berlino, che fu pretenziosamente battezzato Raketenflugplatz Berlin (Razzoporto di Berlino).
L’attività del gruppo proseguì fino al 1933, lanciando razzi di potenza crescente che raggiunsero altezze fin oltre un chilometro; poi, per vari motivi l’associazione si sciolse, lasciando peraltro un’eredità di esperienze e competenze che non andarono perdute. Un assiduo frequentatore del gruppo fu l’allora giovane studente universitario Wernher von Braun, che sarebbe nel giro di pochi anni diventato una delle figure chiave della missilistica tedesca (e in seguito americana).
Werner von Braun giovane (a destra)
Al loro avvento al potere in Germania i Nazisti scoraggiarono gli esperimenti privati nel campo dei razzi, ma nello stesso tempo diedero inizio ad un imponente programma di ricerche militari (intravedendo una possibilità di superare le restrizioni allo sviluppo di armamenti imposte alla Germania dal trattato di Versailles). In esso fu riversate una enorme quantità di risorse.
Sotto la direzione tecnica dell’ancora giovanissimo Von Braun (1912-1977), il centro di ricerche militari di Peenemünde, situato sulla costa baltica, non lontano dall’attuale confine con la Polonia, a partire dal 1936 fu la culla della missilistica tedesca. Non abbiamo qui spazio per descrivere le varie tappe attraverso le quali il team guidato da Von Braun giunse nel luglio del 1943 al primo lancio del missile A-4, che ribattezzato V-2 (da Vergeltungswaffe 2, cioè arma di rappresaglia n.2) dal settembre del 1944 cominciò a martellare le città inglesi, ma riprenderemo il tema nella seconda parte. Si trattò in ogni caso del primo vero missile balistico moderno.
Lo sviluppo della tecnologia in Unione Sovietica
Anche in Unione Sovietica lo sviluppo della tecnologia dei razzi passò inizialmente attraverso le attività di un gruppo di appassionati, che si riunirono sotto la sigla del Gruppo di Studio sul Moto a Reazione (GIRD), fondato a Mosca dall’ingegnere Fridrikh A. Tsander (1887-1933).
Affascinato dalle idee di Tsiolkovskii, e cercando di svilupparle in maniera ingegneristica, dopo alcuni tentativi iniziali condotti autonomamente, verso la fine degli anni Venti, Tsander riuscì nel 1931 a ottenere l’appoggio e un piccolo finanziamento dalla Osoaviakhim, la principale organizzazione giovanile sovietica dedicata alla disseminazione nel popolo della cultura tecnico-scientifica (in seguito più consistenti fondi dalla Armata Rossa sovietica), per sviluppare un motore a razzo a combustibili liquidi che potesse equipaggiare un aliante a razzo e in prospettiva un veicolo spaziale.
Assieme a Tsander cominciò presto a lavorare anche il giovane Sergei P. Korolev, destinato a divenire nel secondo dopoguerra un uomo chiave dei programmi missilistici e spaziali sovietici.
[A sinistra: Sergei P. Korolev (1906-1966)]
Nel giro di due anni il gruppo GIRD divenne una organizzazione di ricerca e sviluppo controllata dallo Stato, riuscendo nell’agosto del 1933 a lanciare un primo piccolo missile dotato di un motore a razzo ibrido e qualche mese più tardi un secondo missile dotato di un motore alimentato ad alcool e ossigeno liquido.
Dopo questi primi (modesti) risultati l’interesse delle autorità russe per i razzi evolvette rapidamente, tanto che l’anno seguente (Tsander era nel frattempo morto prematuramente) fu fondato il nuovo Istituto di Ricerca Scientifica per la Propulsione a Reazione (RNII) che ebbe ben altri fondi e mezzi di quelli prima concessi al GIRD, ma fu subito condizionato da esigenze militari, così che l’attività sui missili a propellente liquido perse presto priorità.
Sarebbe troppo lungo seguire le vicende e le ricerche di questo istituto prima della seconda guerra mondiale. La sua attività e quella dei suoi migliori elementi furono peraltro molto rallentate, dopo pochi anni, dalle purghe staliniane (lo stesso Korolev, nel 1938 fu arrestato e passò sei anni in un gulag siberiano). In ogni caso il risultato principale delle ricerche del RNII furono una serie di razzi non guidati a combustibile solido, abbastanza semplici, ma molto affidabili, che equipaggiarono le famose batterie semoventi di razzi Katiusha, ampiamente ed efficacemente utilizzate durante la guerra dall’esercito russo.
L’attività di ricerca in Italia
Per concludere questo rapido excursus sulle realizzazioni pionieristiche degli anni Venti e Trenta, accenniamo brevemente al fatto che anche in Italia, a partire dal 1927, fu svolta una discreta attività di ricerca sui razzi a propellente solido e liquido, principalmente sotto la guida del grande pioniere aeronautico, e scienziato, Arturo Crocco (1877-1968), e in seguito anche di suo figlio Luigi.
Crocco lavorò inizialmente con modesti fondi messi a disposizione dall’Esercito e trovò in seguito collaborazione anche da parte della società BPD (Bomprini Parodi Delfino), storico produttore italiano di esplosivi. La sperimentazione con razzi a propellenti solidi non diede però risultati giudicati soddisfacenti, e fu abbandonata in favore di quella sui propellenti liquidi. Fu progettata a questo scopo una camera di combustione per prove stazionarie, alimentata con una miscela di benzene e tetrossido di azoto, che fu attivata alla fine del 1930 presso l’Istituto di Chimica dell’Università di Roma.
Le sperimentazioni proseguirono ancora per un paio d’anni, anche con altri propellenti e spostandosi all’Istituto di Aeronautica, ma poi tutto si interruppe e l’idea dei razzi cadde nell’oblio. Da segnalare inoltre che negli stessi anni un appassionato pilota di alianti, il milanese Ettore Cattaneo (1898-1972), modificava un velivolo di sua proprietà, dotandolo di razzi a combustibile solido, effettuando con successo diversi voli sull’aeroporto di Taliedo, nell’estate del 1931.
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Gianluca Lapini
(Ingegnere. Già ricercatore presso CISE e CESI Ricerca S.p.a.)
Note
Riportata da Giovanni Caprara nel suo libro Storia italiana dello spazio.
Solamente qualche decennio prima questa convinzione non era ancora diffusa neppure fra gli scrittori di fantascienza, né tanto meno fra gli scienziati; lo dimostrerebbe il fatto che nei due famosi romanzi di Jules Verne, Dalla Terra alla Luna e Intorno alla Luna, pubblicati rispettivamente nel 1865 e nel 1870, si immagina che sia un enorme cannone, non un razzo, a sparare verso il nostro satellite la capsula contenente i viaggiatori spaziali. Verne prevede peraltro che essi utilizzino dei retro-razzi per rallentare la loro corsa in prossimità della Luna e potere così allunare (ma per un errore di manovra i razzi hanno però solamente l’effetto di modificare l’orbita lunare in cui la capsula si era inserita e di instradarla su una rotta di ritorno verso la Terra).
Per la precisione nel 1903 apparve esclusivamente la prima parte di questo articolo, che a causa degli scarsi appoggi di cui Tsiolkovskii godeva in quegli anni nell’ambiente scientifico, gli fu possibile far pubblicare, dopo il rifiuto di diverse testate specializzate, solamente su una oscura rivista socio-politica, le cui uscite cessarono però poco dopo; l’autore non fece quindi a tempo a pubblicare la seconda parte del suo articolo, che fu ripubblicato in forma completa solamente nel 1924.
Non è qui possibile affrontare il tema della influenza delle convinzioni religiose e filosofiche di Tsiollkovskii, sulla sua curiosità e la sua attenzione alla tematica dei viaggi spaziali. Ci limitiamo a riportare una sua affermazione dimostratasi profetica: «La Terra è la culla dell’umanità, ma l’uomo non può vivere sempre nella culla».
Max Valier nacque a Bolzano nel 1895. Studiò fisica e astronomia all’università di Innsbruck, ma non concluse gli studi a causa della Prima Guerra Mondiale, dedicandosi successivamente alla scrittura di opere scientifiche e fantascientifiche. Fra le sue opere più significative Der Vorstoss in den Weltenraum, (L’avanzata nello spazio) che riprendeva le idee di Oberth, e che si vendette molto bene, tanto che ne furono fatte varie ristampe
Per queste imprese furono usati nella maggior parte dei casi dei razzi a polvere pirica di non grandi prestazioni, e di piccola potenza unitaria, che venivano affiancati in buon numero per raggiungere le spinte necessarie; essi erano realizzati dalla azienda di Friedrick Sander, che produceva razzi da segnalazione e altri dispositivi similari. Sander produsse in seguito anche razzi per uso militare
Il punto debole dei suoi razzi erano le camere di combustione e gli ugelli, per i quali non riusciva a trovare materiali in grado di resistere a lungo alle altissime temperature sviluppate dalla combustione.
Indicazioni Bibliografiche e Sitografiche
Associazione Euresis (a cura di), Catalogo della mostra EXPLORERS, XXXV Meeting, Rimini 2015.
Roger E. Belstein – Flight in America – John Hopkins University Press, Baltimore 1984.
Giovanni Caprara, Storia italiana dello spazio, Saggi Bompiani, Milano 2012.
L. Galfetti, L’esplorazione dello spazio, un’avventura affascinante che richiede un passo preliminare: l’accesso allo spazio, Conferenza dell’ 8 maggio 2014 presso CEUR, Milano.
AJ.D. Hunley – The Enigma of Robert H. Goddard – in Technology and Culture, April 1995, The University of Chicago Press
M. Neufeld – Weimar Culture and Futuristic Technology: The Rocketry and Spacecraft Fad in Germany, 1923-1933 – in Technology and Culture, October 1990, The University of Chicago Press.
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www.braeunig.us (Rocket Propulsion)
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© Pubblicato sul n° 56 di Emmeciquadro