Nel 2012 il reddito disponibile delle famiglie è sceso del 2%, ma il potere d’acquisto reale è diminuito del 4,7%: la perdita peggiore almeno dal 1990, data di inizio delle serie storiche. Non è il solo dato drammatico comunicato dall’Istat. Più sintomatica è la notizia che la propensione al risparmio ha toccato i minimi degli ultimi 22 anni. Il che, all’apparenza, contrasta con il buon stato di salute dell’industria del risparmio gestito che sta andando a gonfie vele, come dimostrano le performances delle società specializzate in Borsa. Nei primi otto mesi dell’anno il settore ha messo a segno una raccolta di oltre 52 miliardi di euro, in sensibile incremento sul 2012: anche così si segnala la crescente diseguaglianza tra gli italiani. Ma anche un generale clima di sfiducia che coinvolge poveri, che non possono risparmiare, e abbienti o ricchi che, per mancanza di fiducia, non consumano come dimostra, sempre nel 2012, il calo del 3,8%.
Dati che, facile previsione, sono destinati a non cambiare di molto a fine 2013. Certo, quest’anno il Prodotto interno lordo scenderà “solo” dell’1,8% invece che del 2,5% come nell’anno della grande austerità. Ma, ci avverte Moody’s, è assai difficile che entro fine dicembre regga la diga del 3% del deficit, già conquistato con tanta fatica. Nel frattempo, rispetto ad un anno fa, la pressione fiscale è salita dal precedente record del 44% del Pil, mentre il rapporto debito/Pil avrà sfondato il tetto del 130%. L’onda lunga della recessione, del resto, arriva da lontano: tra il 2007 e il 2013 il Prodotto interno lordo si è contratto, in termini reali, dell’8,4% in Italia, più che in Spagna (5,3%) o della media Ue (1,3%). Nello stesso periodo gli investimenti sono scesi del 19% nell’eurozona, del 38% in Spagna e del 27% in Italia e l’occupazione è crollata in Spagna (-17%), assai più che in Italia (-2%). Una nota consolante, ma che cela una previsione inquietante: solo gli ammortizzatori sociali garantiti dalla cassa integrazione, a prezzo della fiscalità generale, hanno contenuto, almeno sulla carta, una caduta ben più massiccia.
La conferma viene proprio dalla Spagna: la forte crescita dell’export (+11% nel 2013) è parente stretta dei bruschi tagli della forza lavoro piuttosto che di una crescita degli investimenti (che non c’è stata). Non è perciò azzardato prevedere che, al fine di recuperare competitività, presto si assisterà anche da noi a una nuova ondata di ristrutturazioni e relativo taglio dell’occupazione: l’annuncio degli esuberi bancari piuttosto che i timori dei dipendenti di Telecom Italia sono segnali sinistri per un sistema che, nonostante i sacrifici, ha fatto ben poco per tutelare il proprio futuro. Inutile nascondersi dietro la riduzione del cuneo fiscale: il riequilibrio degli oneri a vantaggio del lavoro può essere un rimedio nella giusta direzione, ma non basta se, nel frattempo, non ripartono gli investimenti e non si danno risposte adeguate sul fronte della flessibilità nell’impiego della forza lavoro. E, soprattutto, se le nostre aziende dovranno competere con un costo del denaro di 4-5 punti superiore alla concorrenza del Nord Europa.
Questi e altri numeri servono, dopo le emozioni degli ultimi giorni, a riportare al centro dell’attenzione l’emergenza civile, non solo economica, in cui non solo in Italia prendono corpo i populismi di destra e di sinistra. Riuscirà il governo Letta, dopo la cura ricostituente, a invertire la deriva negativa? Senza sperare nei miracoli, qualcosa si può fare fin da subito, inseguendo obiettivi ambiziosi ma non velleitari. A partire dalla madre di tutti i problemi: la mancanza di credito.
Senza una massiccia iniezione di capitali nell’economia italiana qualsiasi speranza di ripresa è una pura illusione. Ma, lungi dal crescere, i crediti all’economia da parte del sistema bancario si contraggono. Il contributo del settore finanziario non bancario, vedi la Borsa (ma anche i corporate bond e strumenti quasi capital) è comunque troppo limitato per incidere sul trend. Dati i numeri sulla massa monetaria che emergono dalle rilevazioni della Bce è illusorio sperare che la ripresa, nel migliore dei casi, possa superare la soglia dell’1%.
Ma le cose potrebbero andare anche peggio. Tra poche settimane saranno pubblici i dati sui test sulle banche condotti dalla Bce che assumerà la vigilanza sulle banche sistemiche a partire dal 2014. Test severi, perché la banca centrale, a ragione, non vuole assumersi eredità scomode. Per l’Italia, però, l’approssimarsi dell’esame ha voluto dire controlli preventivi molto rigidi da parte della Banca d’Italia che hanno reso ancor più difficile e problematico il rapporto tra banche eimprese. Non solo. La Bce (e l’Ue) intendono ridurre, se non recidere, il patto perverso che lega mondo bancario e debito sovrano. Nel corso dell’ultimo anno i titoli di Stato in magazzino presso le banche nostrane sono saliti da 200 a 400 miliardi. Si genera così un circuito vizioso: le banche si finanziano allo sportello di Francoforte a tassi quasi zero, sottoscrivono Bot e li riportano a Francoforte a garanzia della propria esposizione. In questo modo il credito non affluisce all’economia reale, i meccanismi del mercato interbancario vengono saltati mentre si genera una partita di giro a somma zero grazie ai finanziamenti Ltro che, ha ammonito Bruxelles a proposito del Monte Paschi, non potranno protrarsi all’infinito.
Di qui una situazione delicata che, nell’ultimo survey del Fondo monetario internazionale, si sintetizza così: se l’economia si riprende, le banche italiane più importanti possono farcela da sole. Qualche dubbio vale per quelle di medie e piccole dimensioni, duramente colpite dalla crisi dei clienti che dovranno comunque affrontare una fase di consolidamento non facile. Ma se l’economia peggiora, anche i colossi dovranno raccogliere nuovo capitale. E se pensiamo ai numeri di partenza, non è improbabile che l’economia peggiori, prima di dar segni di miglioramento. Ma chi metterà i soldi nelle banche italiane? E, al contrario, come si farà a parlare di ripresa se gli istituti continueranno a lesinare il centesimo alle imprese? Non si può bussare alle casse stremate dello Stato. O far conto più di tanto sulla risposta della Borsa. Forse, come ha detto lo stesso Mario Draghi, è il caso di affrontare il tema della “frammentazione” del mercato del credito. Il che significa favorire un’ondata di M&A in Europa, avviando una concentrazione a livello di eurozona.
Altro che Alitalia, insomma. Presto sul tavolo ci sarà l’arrivo di nuove manifestazioni di interesse, magari dalla Germania o dalla Francia per le banche di casa nostra. Una minaccia? L’importante, in certi casi, è saper gestire le situazioni piuttosto che attendere inerti la tempesta. È essenziale dotare gli istituti di governance e di professionalità adeguate così come prevedere strumenti, in linea con la normativa Ue, per garantire il rispetto dell’interesse degli stakeholders (i cittadini in questo caso).
Ma guai a voler perpetuare “l’italianità” in banca senza un contenuto strategico. È un’esperienza che, ai tempi dell’estate dei furbetti, abbiamo pagato a caro prezzo: Monte Paschi, piombata su Antonveneta (ai tempi chissà perché preda così ambita) ne è uscita con le ossa a pezzi; il Banco Popolare, che ha dovuto farsi carico dei cocci della Popolare di Lodi, mena ancor oggi vita stentata. Sia Banca Intesa che Unicredit, come già fanno, possono recitare un ruolo da protagonisti internazionali. L’importante è che non si ceda alla tentazione di farne dei collettori dei cocci accumulati dal sistema (dall’Alitalia ad altri istituti più fragili) condizionando le loro strategie. Ed è essenziale che si distinguano in maniera netta gestione e proprietà, senza che quest’ultima continui a invadere le prerogative dei manager.
Le Fondazioni ex bancarie hanno avuto un ruolo rilevante nell’ultimo quarto di secolo garantendo stabilità al sistema che altrimenti avrebbe fatto la fine di Telecom Italia. Ma ora, di fronte alla creazione di un mercato davvero unico della finanza, come è necessario che sia se vogliamo che l’Europa avanzi, bisogna cambiar registro. Anche perché le banche nei prossimi anni assorbiranno capitali, piuttosto che staccare i dividendi necessari per il supporto delle iniziative delle Fondazioni.
È un campo di battaglia, quello delle banche, cui il governo deve guardare con attenzione, ma senza smanie dirigistiche che conducono al disastro (vedi le alchimie di Giulio Tremonti). Ma è qui, più che nelle aule parlamentari, che si vedrà di quale carisma dispone lo strano ma indistruttibile dicastero Letta.