In questi giorni, nell’ambito del suo programma di spettacoli per ragazzi, il Teatro Litta propone ai bambini dai tre agli otto anni lo spettacolo “Il piccolo Uovo”, tratto dal racconto di Francesca Pardi, lesbica, con quattro figli e tre gatti come lei stessa si racconta, illustrato da Altan, il papà della Pimpa.
In breve la trama, come presentata dal teatro alle scuole. “Ci sono tanti tipi di famiglie…figli unici, tribù, bambini adottati, famiglie allargate, famiglie con un genitore solo, famiglie con due mamme o due papà… E qual è la migliore in cui nascere? Quella felice, di qualunque tipo sia. I bambini sono più abituati di noi a convivere con storie e culture lontane, a vivere la differenza. Ma spesso mancano le narrazioni che permettono ai nuovi bambini di riconoscersi come l’esito di una storia che li precede, li accompagna, li prosegue. Bisogna trovare le parole. Bisogna potersi specchiare per vedersi dentro la Storia. Ci vogliono nuove fiabe per le nuove famiglie. TEMI: che cos’è una famiglia, quanti tipi ce ne sono”.
Tanti sentimenti. Di rivolta contro la sempre più diffusa strumentalizzazione dei bambini per sostenere la rapida diffusione del gender, la nuova ideologia dominante). Di impotenza di fronte ad una così palese falsificazione della realtà (chi dice queste cose o non conosce i bambini o….). Di tristezza per la sempre più rapida degenerazione di un mondo che dice di credere solo nella felicità e nell’amore e che in realtà ostinatamente distrugge tutto ciò che potrebbe sostenere questo desiderio, certamente il più profondo nell’uomo.
Poi, tra le tante possibili, alcune riflessioni. L’inutilità cui sembra fatalmente destinata qualunque opposizione a quello che, come con chiarezza afferma la presentazione dello spettacolo, sembra essere il “corso ineludibile della storia” è solo apparente. La realtà si prenderà la sua rivincita. Hegel, purtroppo sempre vivo, rimane purtroppo sempre soltanto portatore di violenza e di morte! Non ci si ricorda che è l’uomo che cambia la storia e non il contrario. Manca la decisione che da questa consapevolezza nasce.
Allora che cosa si può fare? Per affrontare i problemi posti da fatti come questo spettacolo, nato per propagandare lo stile di vita omosessuale, sempre più numerosi e sempre meno rilevanti nell’opinione pubblica, non servono scienza e filosofia (che pure possono dire cose importantissime su molti degli aspetti sollevati): occorre che ciascuno sappia prendersi le proprie responsabilità, innanzi tutto rispetto ai ruoli e ai compiti che gli sono affidati.
Consideriamo questo caso. Potremmo pensare che in fondo non si tratti di un grande problema: solo poche centinaia di bambini vedranno lo spettacolo (e poi nella mia scuola non succedono queste cose), le procedure previste sono state rispettate (almeno così sembra). Colpisce però che nella scuola di Casalpusterlengo dopo lo spettacolo siano sorte proteste, vivacissime e diffuse.
Allora tante domande. Su quali basi sono state prese le decisioni, dalle insegnanti prima, quando hanno scelto di proporre lo spettacolo, dai genitori poi, quando hanno dato il proprio consenso (obbligatorio) alla partecipazione dei propri figli? Perché nella scuola c’era fiducia nell’ente che lo proponeva (ma la presentazione sembra molto chiara) e nei genitori c’era fiducia nella scuola o perché, di delega in delega, oggi nessuno pensa più che il bambino ha bisogno non solo di essere accudito ma anche di essere accompagnato? Quale attenzione c’è, in concreto, per i propri figli/allievi?
La parola chiave allora non è fiducia ma de-reponsabilizzazione. In ultima analisi la verità è che anche per l’educazione ci si affida alla macchina (stato o scuola che sia). Ciò trova una conferma netta nel fatto che le non poche possibilità, non solo ‘partecipative’, che la macchina e il quadro legislativo offrono – a cominciare da molti articoli della Costituzione, dalle forme di ‘responsabilità collegiale’ affidate agli insegnanti, dalle possibilità date ai genitori di partecipare a molte scelte nella scuola a cominciare dalla scelta della scuola – non sono in realtà usate tanto da essere dimenticate e da apparire in molti casi tacitamente abrogate.
Non ho tempo, non ho energie, le riunioni collegiali sono formalità e non vale la pena… Tante sono le ragioni, anche reali, che sembrano giustificare quest’inerzia. Resta vero però che se l’adulto si ritira dall’esercizio effettivo di questa responsabilità, se rinuncia a trovare nella propria esperienza di uomo le ragioni, il fondamento, la forza per esercitarla, affidarsi alla scienza e alle procedute rappresenterà solo la conferma che la soluzione al problema educativo non può essere trovata chefuori da me.
Così l’irresponsabilità è codificata, la coscienza si tranquillizza (?) e i bambini continuano ad essere soli. Perché già lo sono, soprattutto quando pensiamo di aver fatto il meglio, dando loro tutto. Tutto tranne che lasciar loro uno spazio in cui condividere la nostra vita. Tutto tranne che ricordarsi che espressioni come accompagnarli nel loro ‘sviluppo’ e nella loro ‘crescita’ sono solo parole se non si traducono nella nostra effettiva, e umile, disponibilità a fare insieme i concreti passi che li introducono alla realtà.