«Mia madre (Janet Teig) fece di me uno scienziato senza averne l’intenzione. Ogni altra madre ebrea di Brooklyn avrebbe chiesto al proprio figlio dopo la scuola: “Allora? Hai imparato qualcosa oggi?”. Ma non mia madre. “Izzi – mi avrebbe chiesto- hai fatto una buona domanda oggi?”. Questa differenza – porre buone domande – mi fece diventare uno scienziato» (Isidor Isaac Rabi, 1993).
Non crediamo di sbagliare previsione se diciamo che sono pochissimi i genitori italiani che si comportano come la madre di Rabi (il quale peraltro conquistò il Premio Nobel per la Fisica nel 1944). Purtroppo, forse non sono molti neppure quelli che chiedono ai figli se hanno imparato qualcosa; mentre, senza bisogno di scomodare i sondaggisti televisivi, possiamo essere certi che è elevato il numero di quelli che chiedono «che voto hai preso?».
Il guaio è che se è difficile trovare genitori interessati alle domande, non è così facile trovare insegnanti che sollecitano e valorizzano gli interrogativi degli studenti e che ne fanno un asse portante della loro proposta educativa. Facciamo notare, tra l’altro, che la signora Teig non chiedeva semplicemente se il figlio aveva posto delle domande ma se aveva fatto una “buona” domanda.
È qui che si comprende come il compito del docente diventi rilevante e impegnativo. È esperienza comune costatare come l’innata curiosità umana, soprattutto in età giovanile, faccia sorgere continuamente interrogativi e quindi potrebbe sembrare superfluo insistere su questo aspetto, che poco o tanto si manifesta spontaneamente.
A parte il fatto che non siamo così sicuri che nelle aule scolastiche dei nostri giorni questa manifestazione sia così presente e viva (qui sì, sarebbe interessante qualche sondaggio…). In ogni caso vogliamo sottolineare che al docente è richiesto non solo e non tanto di stimolare le domande e di raccoglierle, soddisfatto di avere una classe vivace e partecipativa; è chiesto piuttosto di «lavorare sulle domande». Con un duplice obiettivo.
Da un lato quello di conoscere meglio gli studenti, le loro reazioni a ciò che si sta proponendo, la loro personale modalità di seguire il cammino conoscitivo che insieme si sta facendo. Indubbiamente ciò è più impegnativo, sia per l’attenzione che richiede da parte del docente, sia per l’analisi supplementare che implica: è infatti relativamente facile verificare che una risposta sia azzeccata o corrisponda al contenuto teorico spiegato in classe nei giorni precedenti; ben più difficile è cogliere il valore di una domanda, l’eventuale elemento di novità e originalità che contiene; questo, se riconosciuto, costringe l’insegnante a dare risposte non scontate e spesso a rivedere la modalità con la quale ha presentato quei particolari argomenti.
L’altro obiettivo di un lavoro sulle domande è di tipo pedagogico. Anche quella del domandare è un’attitudine da educare: un cammino di conoscenza e di scoperta, quindi di crescita umana, va scandito come graduale passaggio dalle domande spontanee e generiche a quelle sempre più precise e ben formulate; mosse dal desiderio di incontrare le risposte.
Il secondo obiettivo allora di un lavoro sulle domande sarà quello di educare a compiere quel passaggio dalle domande spontanee e curiose alle «buone» domande: a quelle che nella storia della scienza hanno innescato i grandi avanzamenti e le aperture di nuovi scenari e che, nella storia personale di ciascuno, possono segnare i tanti piccoli passi di un cammino di conoscenza.
Tutto ciò vale in modo speciale nel caso delle discipline scientifiche: nonostante si faccia un gran parlare di nuovi modelli pedagogici, di strumenti interattivi, di didattica laboratoriale, l’insegnamento delle scienze si manifesta in gran parte ancora come l’offerta di una catena di risposte presentate senza che sia chiaro quali erano le domande.
Alcuni contributi in questo numero – tra gli altri, la storia delle innovazioni agricole tratteggiata da Michele Stanca, le tecniche per misurare con la luce illustrate da Sergio Musazzi o l’approccio storico-sperimentale alla nascita delle discipline biologiche sviluppato da Cristina Speciani – possono fornire preziosi suggerimenti, mostrando all’opera una dinamica che si è sviluppata su due linee intrecciate: quella del graduale precisarsi delle domande e quello della maggior consapevolezza del significato delle risposte.
Chissà se tra gli effetti collaterali della «riforma» della Buona Scuola potrà trovare posto un cambiamento di atteggiamento degli educatori, che li porti a concentrarsi su aspetti come quelli qui segnalati, quindi sul cammino di crescita della persona dello studente più che sulle sue prestazioni.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 57 di Emmeciquadro