“La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, ed ‘uscire’ incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede”. Lo ha detto Papa Francesco nel corso della sua prima udienza generale. Ieri il Santo Padre ha documentato il senso delle sue parole celebrando il rito della lavanda dei piedi in occasione della messa in Coena Domini nel carcere minorile di Casal del Marmo. Ilsussidiario.net ha intervistato frère Alois Loeser, priore della comunità di Taizé, che ogni anno organizza incontri internazionali di preghiera cui partecipano diverse decine di migliaia di giovani.
Il Papa ha citato il passo del Vangelo in cui si dice che “le volpi hanno la loro tana e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Qual è il valore di questo richiamo per la Chiesa di oggi?
Il Papa ci indica una direzione. La nostra fede non è una ricchezza che possediamo, ma qualcosa che ci porta al dono della nostra vita. Il Papa con questa meditazione su Cristo che è in cammino e che non ha un posto per se stesso, mostra la strada che dobbiamo seguire noi cristiani. Il nostro compito è quello di uscire da noi stessi ma senza cercare una sicurezza soltanto per noi: al contrario dobbiamo andare in tutto il mondo verso gli uomini, le donne e i bambini che soffrono.
Per Bergoglio, “vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare a uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza a portare Cristo”. Che cosa significa questo per la sua esperienza?
A Taizé accogliamo numerosi giovani che chiedono di essere ospitati nella nostra comunità. Ciò che ci interessa non è soltanto organizzare degli incontri, ma ascoltare le domande e il dolore di queste persone. I giovani e più in generale la nostra società occidentale soffrono innanzitutto per una povertà di relazione e di comunione. Ascoltando le persone è possibile appunto far nascere una realtà di comunione. A Taizé viviamo l’accoglienza di giovani, ma dobbiamo anche andare concretamente verso gli altri.
In che modo?
L’anno scorso abbiamo tenuto un incontro per i giovani in Ruanda, perché sentiamo fortemente che gli europei non si preoccupano abbastanza dell’Africa. Tanto è vero che già nel 2008 avevamo svolto il nostro incontro internazionale a Nairobi in Kenya. Dobbiamo creare legami di ascolto, di comunione, di comprensione, di scambio con il continente africano. Anche dal punto di vista geografico dobbiamo creare ponti tra le culture, e la Chiesa ha una missione molto importante perché ciò avvenga.
Per il Santo Padre “entrare nella logica del Vangelo significa uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte all’azione creativa di Dio”. Può fare un esempio del modo in cui ciò può avvenire?
Il Papa lo ha mostrato concretamente ieri sera recandosi in una prigione per celebrare il Giovedì Santo e lavare i piedi ai carcerati. Anche noi dobbiamo andare verso quanti non conosciamo ancora. Con gli incontri europei organizzati ogni anno da Taizé, nel 2012 a Roma e nel 2013 a Strasburgo, vogliamo vivere questo invito a “uscire da noi stessi”. Ogni parrocchia alla quale in queste occasioni è chiesto di ospitare cento o duecento giovani, deve uscire dalle sue abitudini per vivere la dimensione evangelica dell’accoglienza. I pellegrini che si recano in una città devono accettare di recarsi presso una famiglia che non conoscono ed essere accolti da quest’ultima. E’ anche questo un modo per rispondere all’invito fatto dal Papa.
In un momento in cui anche in Europa c’è sempre più povertà, che valore ha il richiamo a occuparsi del continente africano?
In un mondo che si globalizza dobbiamo aprire gli occhi, vivendo la dimensione della Chiesa universale, e non lasciare la globalizzazione soltanto alle forze economiche. Non si tratta solo di aiutare gli altri continenti, ma ancora di più di imparare qualcosa da loro. Per fare un esempio, sono rimasto piacevolmente sorpreso nell’incontrare la grande vitalità del cristianesimo in Ruanda, dove esiste una Chiesa giovane che noi ci sogniamo. È proprio il contatto con le culture africane che può restituire slancio a un’Europa sempre più vecchia e stanca e dare alla Chiesa universale l’incoraggiamento di cui ha bisogno. È questo fatto che rende così importante la scelta di andare a incontrare le altre culture per vedere come quest’ultime vivono il cristianesimo.
Qual è il contributo che può offrire la Chiesa di fronte a un’Europa sempre più in crisi non solo dal punto di vista economico ma innanzitutto morale?
Uno dei nostri fratelli e due giovani di Taizé si sono recati per un certo periodo di tempo nel Sud della Spagna, in una regione che vive difficoltà drammatiche legate alla disoccupazione. Questi tre nostri inviati hanno partecipato con la Caritas a un progetto per aiutare anche materialmente quanti hanno perso il lavoro. Ben presto però si sono resi conto di quanto sia importante ascoltare e accogliere le persone, in quanto l’aiuto materiale non è sufficiente. La povertà in Europa è anche una assenza di dignità umana. Ci sono tante famiglie che perdono il lavoro e la casa, diventando da un giorno all’altro dipendenti da un aiuto esterno. La Chiesa deve quindi aiutare materialmente, ma è anche chiamata a essere vicina alle persone per offrire loro un sostegno spirituale che consenta di promuoverne la dignità umana.
(Pietro Vernizzi)