Gang criminali, traffici di droga, violenza, rapine ed estorsioni. Dopo un anno di indagini, gli investigatori del Commissariato Milano Mecenate hanno arrestato 59 giovani sotto i 30 anni e 12 minorenni, quasi tutti latinoamericani, ritenuti membri di quattro diverse bande. Altre 112 persone, 14 delle quali minori, sono state denunciate a piede libero. Per entrare nella gang era previsto un vero e proprio rituale di affiliazione, ripreso dalle telecamere nascoste delle forze dell’ordine: resistere per tre minuti al pestaggio dei “boss”. Solo successivamente si poteva entrare a far parte di un’organizzazione composta da una precisa gerarchia e finalizzata alla commissione dei più svariati reati. Tra questi, il traffico di cocaina dalla Colombia e dal Messico attraverso cani di grossa taglia, a cui veniva innestato nelle viscere oltre un chilo di coca purissima e che, una volta giunti in Italia, venivano barbaramente uccisi. Insieme a Gian Carlo Blangiardo, docente di Demografia nell’Università di Milano-Bicocca, cerchiamo di capire come mai tanti giovani stranieri residenti a Milano finiscono per percorrere questa strada criminale.
Come giudica quanto scoperto dalle forze dell’ordine?
Situazioni del genere sono figlie di un percorso di insediamento e radicamento, compiuto dagli immigrati, in un tessuto capace di offrire molto, purtroppo anche alla stessa criminalità. Un tessuto, però, che non sempre permette agli adolescenti di integrarsi pienamente.
Cosa può dirci della realtà migratoria milanese?
Secondo le stime della fondazione Ismu, a Milano ci sono circa 22mila latinoamericani, 23mila peruviani e 16mila ecuadoriani. Una presenza dunque forte e radicata, inserita nel tessuto sociale ormai da molto tempo.
Quali crede siano dunque i maggiori problemi?
Credo sia opportuno interrogarsi principalmente su come la città sia riuscita a rispondere al bisogno di integrazione di questi giovani che, come abbiamo visto, non sono affatto pochi e che in molti casi presentano situazioni di vita problematiche. I segnali che giungono da queste realtà, come l’episodio di cronaca che stiamo commentando, dovrebbero far riflettere su un necessario accrescimento dello sforzo per considerare maggiormente questi adolescenti, cercando di offrire loro risposte e alternative.
In che modo in particolare?
Luoghi come l’oratorio rappresentano da sempre un punto di riferimento in cui l’adolescente può socializzare e rimanere fuori dai guai. Ho però la sensazione che oggi strutture di questo tipo, come tante altre analoghe, siano in difficoltà nell’offrire sufficiente attrattiva a questa nuova presenza che, a volte, può degenerare nelle situazioni che abbiamo visto, seppur estreme.
Dove crede risiedano le principali cause di questa mancata integrazione?
Il disagio proviene da tanti fattori, anche solo dal confronto con i coetanei più fortunati che possono contare su famiglie benestanti e radici più solide. E’ ovvio che il figlio dell’immigrato presenta maggiori difficoltà, quindi in alcuni casi sceglie di aggirare l’ostacolo pensando che sia la strada più veloce, quando in realtà è solamente quella più rischiosa. Questo tipo di disagio, però, deriva innanzitutto dalla trasmissione di un sistema di valori e modelli sbagliati, distorti, su cui però i ragazzi spesso puntano tutto. Non siamo stati ancora capaci di riuscire a dare, anche ai giovani immigrati, l’idea che chiunque può costruire il proprio futuro su dei valori che non sono necessariamente il consumo e la disponibilità di denaro.
Cosa dovrebbe fare quindi una città come Milano?
Dovrebbe innanzitutto valorizzare queste strutture, presenti e numerose, ma che purtroppo lottano come possono per sopravvivere, sia a causa della mancanza di fondi o per l’incapacità di porsi nel modo adeguato. Credo sia necessario fare una profonda riflessione sul fatto che esistono molte realtà che, pur non risolvendo interamente il problema, sarebbero capaci di dare un grande e importante contributo per ridurre le situazioni di disagio e per formare coloro che sono i cittadini di domani.
(Claudio Perlini)