All’estero il made in Italy continua a conquistare clienti ed è infatti dalle esportazioni che le nostre imprese manifatturiere stanno recuperando il “carburante” per agganciare la ripresa. I dati dell’Indagine congiunturale di Unioncamere sulle Pmi manifatturiere fino a 500 dipendenti relativa al IV trimestre 2010 evidenziano che produzione, fatturato e ordinativi superano infatti il 3% nei tre mesi conclusivi dello scorso anno rispetto allo stesso periodo del 2009, mentre l’export sale a +5%, trainato soprattutto dalle aziende con oltre 50 dipendenti e dalle regioni del Nord. Permangono ancora in situazione di difficoltà, invece, le imprese meridionali e quelle di più piccole dimensioni localizzate nelle regioni centrali, dove solo chi esporta riesce a portare di nuovo in positivo i risultati aziendali.
Nel complesso, la ripresa delle vendite dovrebbe consolidarsi nel primo trimestre 2011, ma risulta ancora “frenata” dalle attese non brillanti delle industrie che si rivolgono al solo mercato nazionale. Il punto vero è che le piccole imprese nel nostro Paese (le medie le lascerei stare, sono poco più di 4.500 e fanno più o meno bene da sole) hanno capito da qualche anno, soprattutto dalla crisi in avanti, che – se non si rivolgono a mercati dove la domanda di consumi è crescente – rischiano di morire o di soffrire di asfissia.
Partirei dai dati che spiegano meglio di tutti la questione. Oggi sono circa 192.000 le imprese (tutte, dalle piccole alle grandi) che operano con i mercati esteri. Ma attenzione: di queste 192.000 (su un totale di circa 6 milioni complessivo) solo una minima parte intrattiene rapporti stabili con i mercati internazionali, mentre un buon 75-80% opera solo due o tre volte l’anno con Paesi esteri, meritandosi – direi impropriamente – il titolo di “impresa internazionalizzata”. Per non parlare di quelle che operano sull’Unione europea a 25, che non definirei propriamente un “mercato internazionale”.
Certo, di quei 6 milioni di imprese la stragrande maggioranza sono micro attività di servizi o del commercio ed ovviamente non vanno inserite nel novero dei potenziali esportatori, ma c’è una massa enorme di imprenditori e di capitali umani su cui lavorare. Le stime – selezionando in maniera ponderata le diverse forme giuridiche, i fatturati, i settori di attività, il numero di addetti, il patrimonio ed i dati di bilancio – ci dicono che almeno 500.000 aziende avrebbero i numeri sufficienti per poter affacciarsi con successo fuori dal mercato domestico (allargato).
C’è quindi un margine di crescita altissimo – e non riguarda solo il Nord – per le aziende italiane che vorrebbero affacciarsi sui Paesi stranieri. Chi si occupa di “scovarle” e di provare ad accompagnarle?
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Certo è che i consumi vanno di pari passo con le dimensioni anagrafiche. È quindi normale che si parli e si punti sui Paesi BRIC (Brasile, India, Russia e Cina). Spesso però ci si dimentica che realtà come il Nord Africa (o, meglio, il Mediterraneo meridionale) e l’area dei Balcani rappresentano una realtà importantissima in termini di crescita di reddito (i nostri sono prodotti di gamma medio alta e non batteranno mai la concorrenza sul prezzo….), sono ad un’ora dai nostri aeroporti (e quindi a costi accessibili di trasferta anche ad un piccolo imprenditore) e permettono all’export manager dell’impresa – che guarda caso è sempre il titolare o suo figlio – di poter perdere tre giorni di lavoro lontano dai capannoni…
Peraltro – in Paesi come l’Egitto, il Marocco (zona di libero scambio con gli Usa), la Tunisia, la Turchia, la Serbia (zona di libero scambio con la Russia), la Slovenia, la Croazia, il Montenegro – abbiamo reti istituzionali, associative, banche italiane, camere di commercio che in altri Paesi certo non abbiamo.
Senza nulla togliere ai Paesi con tassi di crescita elevati (partono da valori molto bassi, quindi raggiungere valori percentuali a 2 cifre è più facile) proverei a concentrarmi su Paesi vicini, più promettenti, meno rischiosi politicamente e con una fascia di popolazione ricca… Invece è difficile trovare, sui numerosi documenti di programmazione nazionali o regionali o su altri documenti di politica promozionale per l’estero, una chiara definizione degli obiettivi Paese: una definizione – non dico concentrazione – di Paesi, di geografie su cui investire le risorse pubbliche per gli anni della ripresa.
Quali sono, poi, i limiti e gli ostacoli per i quali le piccole aziende – ma anche le medie – non vanno all’estero? Oltre al fattore culturale (la lingua, il conoscere, il sapere, le usanze, ecc.), va evidenziata una carenza su molti altri fronti.
Primo, gli strumenti di incentivazione pubblici. A parte la Lombardia e l’Emilia Romagna, poche realtà locali cofinanziano la presenza all’estero (missioni, fiere, B2B, ecc.) di imprese. Il credito è uno dei problemi veri per chi vuole operare con l’estero. La garanzia è lo strumento adatto: oggi la copertura dei rischi delle imprese, verso le banche, è fatta dagli organismi di garanzia fidi che, conoscendo le aziende direttamente, sanno se affidarle sia più o meno rischioso; ed infatti i tassi di insolvenza sono bassissimi.
Se, allora, si applicasse questo strumento – che è attivato con soldi pubblici, solo per progetto nazionali – su progetti di investimento o di commercializzazione per i mercati esteri, le imprese si sentirebbero un po’ più coperte su un Paese fuori confine, con una moneta diversa dalla nostra, con un certo rischio Paese e scommetterebbero certamente più volentieri. Lo si era proposto nel famoso Small Business Act (che fine ha fatto?), ma è rimasto lettera morta…
Secondo, i costi.
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Sono tantissimi i soggetti che promuovono iniziative di internazionalizzazione; alcuni fanno bene, altri meno, alcuni fanno un mestiere che non è il loro, altri si improvvisano. Perché non provare, invece, a cofinanziare le sole missioni di incoming, cioè le iniziative dove sono i compratori, i buyers, gli intermediari, i traders a venire in Italia e non noi ad andare fuori?
Il nostro Paese non è bruttissimo e pagare un viaggio ad un grande operatore del mercato agroalimentare o della meccanica di precisione (in genere i più importanti intermediari di un certo Paese coprono il 50/60% del mercato), non è poi utopia. Se poi ci si aggiunge il fatto che, così facendo, è possibile visitare le imprese, creare le condizioni perché quelle imprese straniere investano sul territorio italiano senza scomodare i nostri piccoli imprenditori, ecco che la ricetta è semplice.
Terzo, l’assistenza e la consulenza. Le piccole imprese non si permetteranno mai un export manager tutto per sé. Se lo trovano bravo e preparato, costa molto ed i ritorni a breve non giustificherebbero mai un investimento del genere.
Ma se – sulla falsa riga delle reti d’impresa – più aziende, più imprenditori (non concorrenti fra loro, ovviamente) con un obiettivo comune (un Paese, un mercato, con tempi e fasi più o meno concordate) si avvalessero di professionisti messi a disposizione dalle strutture pubbliche di promozione, avrebbero la garanzia di costi bassi e professionalità qualificate, oltre ad una trama di rapporti in loco garantiti dallo stesso professionista che è stato selezionato. Sia chiaro, infatti, che senza una figura sul territorio locale, qualunque nuova impresa volesse posizionarsi – anche se temporaneamente – è destinata a tornare a casa.
Infine il coordinamento delle attività. Non entro nel merito della riforma degli enti che operano per l’internazionalizzazione; basterà dire che, però, tutti i soggetti che lavorano nel settore della promozione all’estero non si parlano o si parlano pochissimo. Eccezion fatta per le Camere di commercio e per qualche associazione di categoria locale, che pubblicano sui loro siti e mandano a tutti i propri aderenti calendari di attività con 6 mesi di anticipo, non risulta che ci sia una pur generica pubblicazione delle iniziative (sia cofinanziate, che non). Questo basterà a far capire come mai – per esempio – l’ambasciatore italiano in certo Paese sia restio ad accompagnare la sesta delegazione italiana (in un mese) dal ministro dell’economia… Magari senza nemmeno un’impresa al seguito.
Altro esempio è quello fiere: alle centinaia di manifestazioni fieristiche nel mondo, dove partecipano decine di migliaia di imprese italiane, ci si quasi sempre sparpagliati (rara eccezione l’Expo di Shanghai 2010). Siamo un esercito senza divisa e promuovere in Paesi lontani le tipicità locali o sfruttare il potente marchio Italia senza un’immagine coordinata o una qualunque forma di rappresentanza unitaria, appare frustrante e decisamente poco produttivo…