Ora è ufficiale: la Grecia è fallita di nuovo. E, forse, non basterà un terzo o quarto o un quinto salvataggio Ue per tenerla artificialmente in vita, ovvero all’interno dell’eurozona a dispetto dei santi. Mentre il governo ellenico spaccia al mondo come ripresa 50 milioni di euro di avanzo primario – ancora tutti da vedere – e la troika si dice soddisfatta per l’uso che Atene sta facendo dei fondi europei (salvo imporle la chiusura delle fabbriche a controllo statale di armi e automobili, se vuole l’esborso di un’altra tranche), i numeri che giungono dal settore bancario parlano di un Paese fallito. L’ammontare delle sofferenze bancarie è esploso, salendo del 50% dal dicembre 2011 al mese scorso e passando così dal 16% all’attuale 24% (per capirci, mettendo in prospettiva, come se negli Usa ci fossero sofferenze bancarie su prestiti pari a 1,7 triliardi di dollari, circa un terzo del bilancio della Fed). Fatti due conti, al netto dei dati che giungono da Atene, l’ammontare delle sofferenze sarebbe pari a circa 55 miliardi di euro, ovvero già 5 miliardi in più di quanto accantonato dal governo come fondo di ricapitalizzazione del sistema, 50 miliardi di euro appunto.
Peccato che a mettere il carico da novanta ci abbia pensato l’agenzia di consulting PWC, a detta della quale le sofferenze in meno di un anno sono salite di altri 10 miliardi di euro, portando il totale attuale a 65 miliardi di euro, più del doppio della base di capitale delle banche locali, stimata in 30 miliardi di euro. Di più, la percentuale di sofferenze eccede il 30% di tutti i prestiti concessi, quando a fine 2012 era al 25% e a fine 2011 del 18%. Il problema è che, al netto di interesse per quelle sofferenze da parte dei soliti hedge e vulture funds, le autorità greche tendono a non vendere più perché le offerte sono troppo basse. In compenso, la Borsa di Atene è stato l’asset più performante nel mese di ottobre, con un total return del 17%, seguita dal Ftse Mib italiano (+11%) e dall’Ibex di Madrid (+8%).
Il mercato sta facendo i soldi sulle “dead countries walking”, in attesa di quello che sarà l’epilogo obbligato quando tornerà a governare il mark-to-market e non più il mark-to-fantasy: un bella cura cipriota per obbligazionisti, azionisti e correntisti per salvare le banche dei vari Paesi. I primi saranno i greci, tra non molto. Poi.. Poi, si vedrà. Nel frattempo, l’agenzia di rating Fitch – quella che venerdì, sfidando il ridicolo, ha innalzato l’outlook della Spagna da negativo a stabile – ricorda che le prospettive sui rating delle banche europee sono ancora incerte. Ma va? Da una ricerca è infatti emerso che un terzo degli istituti del Vecchio continente che operano in mercati sviluppati e un quinto di quelli attivi sui mercati emergenti hanno un outlook negativo o di tipo watch. A livello globale, l’analisi sui trend dei rating per il terzo trimestre dell’anno ha mostrato uno scenario migliore: questo outlook è stato associato al 20% dei rating delle banche attive nei mercati più sviluppati, rispetto al 14% degli istituti attivi nei mercati emergenti (rispetto al 33% e al 20% rilevati solo sul mercato Ue). La stabilità del rating globale starebbe comunque crescendo, anche se lentamente.
Di tutte le banche coperte da Fitch, l’80% dei rating IDR (gli Issuer Default Ratings, valutazioni sul rischio creditizio) hanno un outlook stabile nel terzo trimestre di quest’anno. I rating IDR sono concentrati a livello BBB, mentre quelli di categoria A rappresentano il 26% dei rating bancari a livello globale, con una predominanza verso i mercati sviluppati. Globalmente il 65% degli istituti hanno un rating investment-grade, ma solamente il 7% sono compresi tra AAA e AA-.
Per quanto riguarda i soli bancari italiani, sempre ieri Societe Generale ha notato come le azioni degli istituti abbiano beneficiato di un forte re-rating nell’ultimo mese, essenzialmente grazie ai movimenti dello spread e, confermando la visione neutrale sul settore, la banca d’affari ha citato anche segnali di ripresa del Pil nell’eurozona. Quale, non si sa, visto che la stessa Societe Generale la scorsa settimana emetteva un allarmato comunicato in base al quale se la Fed continuerà a far crescere la bolla del credito, quando questa esploderà sarà una sorta di cataclisma globale. Non so perché, ma io tendo a fidarmi più di PWC, l’azienda di consulting che ci ha svelato senza troppi giri di parole come la Grecia sia di fatto a zampe all’aria un’altra volta. Già, perché PWC ha compiuto il medesimo studio fatto per la Grecia su tutto il settore bancario europeo. Ed ecco alcuni dati emersi.
Primo, nei bilanci delle banche dell’Ue sono parcheggiati qualcosa come circa 1,2 triliardi di euro di sofferenze (trattandosi di dato medio europeo, useremo la definizione data dalla Bce per i cosiddetti non performing loans: ovvero, prestiti che non hanno visto pagamenti della rata dovuta negli ultimi 90 giorni), 100 miliardi in più da inizio anno. E chi guida questa dinamica, chi è il motore immobile di questo ben poco lusinghiero record? Le banche di Italia, Spagna, Grecia e Irlanda.
Per Richard Thompson, capo della divisione portfolio europeo di PWC, le sofferenze per le banche di quei Paesi proseguiranno a crescere per i prossimi due anni: «Con un clima economico così incerto, è difficile fare qualsiasi tipo di previsione che includa una riduzione nell’aggregato in Europa e pensiamo che il livello dei prestiti a rischio continuerà a crescere ancora nell’arco dei ventiquattro mesi, mettendo ancora più pressione sul mercato portfolio». Insomma, le banche europee – soprattutto quelle dei cosiddetti paesi periferici – saranno sempre più portate a mettere sul mercato quelle sofferenze, una deriva greca generale per una ragione molto semplice: i criteri di Basilea III cui dover andare incontro e gli stress test della Bce, a seguito della Asset Quality Review.
Chi compra quei prestiti? Hedge funds statunitensi, fondi sovrani e facoltosi investitori dell’Est: tutta gente che sa come ottenere ciò che compete loro, scomodando tribunali nei quattro angoli del mondo. Stando a quanto mappato da PWC, sono almeno già 150 i soggetti molto attivi nei confronti del mercato delle sofferenze europee. Un trend che va consolidandosi, visto che l’azienda rivale di PWC, ovvero Ernst&Young, conferma come il mercato delle sofferenze europeo stia rubando investitori a quello statunitense: «Le banche europee hanno aumentato il volume della riduzione delle loro esposizioni alle sofferenze attraverso la vendita di portfolio. Conseguentemente, chi opera in quel tipo di mercato sta attivandosi sempre di più verso l’Europa, visto che con oltre un miliardo di euro di sofferenze nei bilanci, gli istituti dell’eurozona sorpassano e di parecchio quelli Usa».
L’Italia, almeno per Ernst&Young, non è immediatamente in prima fila negli appetiti degli investitori, che le preferiscono Regno Unito, Irlanda, Germania e Spagna, ma i timori per gli stress test potrebbero mutare il sentiment. A oggi, gli istituti più propensi a tagliare prestiti rischiosi verso consumatori, mercato real estate e corporate sono infatti Lloyds Tsb e Commerzbank, stranamente entrambe salvate con soldi pubblici (Lloyds di fatto nazionalizzata e non poco nei guai con il tentativo di tornare privata e sul mercato).
Le banche europee hanno scaricato portfolio prestiti per 29 miliardi di euro nel primo semestre di quest’anno, contro i 46 dell’intero 2012, i 36 del 2011 e i soli 11 del 2010: la maggior parte delle vendite ha interessato prestiti cosiddetti distressed. Per Lee Millstein, capo per gli investimenti immobiliari e sul debito per Europa e Asia di Cerberus Capital Management, «l’Europa oggi come oggi rappresenta la più grande opportunità a livello mondiale». Forse è questo essere preda degli appetiti delle finanza che a Bruxelles scambiano per ripresa. Il problema è: a quale prezzo si svendono quei portfolio ai “cavalieri bianchi” di turno per fare contenta l’Eba e quell’assurdità da burocrati senza cervello che è Basilea III, almeno nelle tappe forzate in cui è imposta? E, soprattutto, quante aziende passeranno di fatto in mano straniera, attraverso i loro prestiti incagliati?
Lo scorso anno la maggior parte dei portfolio su prestiti non performing legati a immobili commerciali sono stati venduti dalle banche al 40-50% di valore facciale, mentre i prezzi per i prestiti corporate dopo che questi hanno fatto default rispetto al loro range di valutazione variavano tra un massimo del 70% e un minimo del 30% sulla parità.
Comprare prestiti bancari a questi livello di sconto, permette all’investitore di acquisire aziende europee con una valutazione da tre a cinque volte di earning prima di tasse, interesse, deprezzamento e ammortizzazione: si parla di un potenziale ritorno annuale del 20% o più, contro la media ponderata del 9,4% negli ultimi dodici mesi negli Stati Uniti. Insomma, siamo alla svendita di sopravvivenza.
Ora, al netto di questo scenario, fare una bella bad bank anche per noi, magari gestita da Cassa depositi e prestiti, no? Tanto vale, visto che comunque Mps è già stata salvata e di fatto nazionalizzata con soldi pubblici, così come Lloyds Tsb e Commerzbank. Se avete notizie di Saccomanni che vadano al di là del negare l’evidenza dei fatti, ieri nei confronti dei dati chiari dell’Istat che stroncano qualsivoglia tipo di ripresa nel nostro Paese, provate a proporglielo.